Mi imbatto ultimamente in libri nei quali vengono immaginati scenari di presa del potere al femminile. Storie nelle quali le donne non solo sono dominatrici, ma di questo loro punto di forza fanno un’identità: la loro identità. Fantasticherie attorno a nemesi articolate in maniera tale che l’universo femminile si impossessa del comando, talvolta ne abusa, talvolta lo scarta, ma quel che soprattutto fa è orientarlo così da arginare il mondo maschile. Per affrancarsene, per vendicarsene, di fatto per dimostrare a quel mondo, e a se stesse, di saper vivere senza i maschi. Così Ragazze elettriche di Naomi Alderman (Nottetempo, pagine 448, euro 20,00), ampia fantasticheria dalle tonalità fantascientifiche dove delle adolescenti sono in grado di soggiogare e “vincere” gli uomini attraverso l’emanazione di scariche elettriche; così un nuovo libro di Rossana Campo, Cati: una favola di potere (Bompiani, pagine 224, euro 14 ,00), favola sulla solidarietà femminile che anch’essa al suo centro ha il tema della gestione della forza. E così, sebbene in altra forma (quella della politica culturale) un’attitudine di “confinamento” della narrativa in tinta rosa attraverso festival, premi letterari, altre iniziative dedicate alle “scrittrici donne'. Come se un’implicita “militanza femminile” rendesse l’atto di scrivere una dichiarazione di impegno. Come se il genere sessuale potesse a sua volta divenire genere letterario. Di fronte a questo riverberarsi sull’invenzione narrativa di un tratto ideologico, davanti a questa “finzionalità militante”, io mi sento disorientata, a disagio.
La letteratura è libera, e l’invenzione deve poter scaturire da uno stato di salute del pensiero che si esprime nella libertà prima di tutto. Quel che è pre-scritto non può essere scritto: la narrativa, ai miei occhi almeno, nulla ha a che vedere con l’appartenenza sessuale, o con desideri di rivincite provocati da un panorama globale di diffusa sopraffazione sulle donne (orrendamente diffusa, in un’Italia invasa da femminicidi, e prima da abusi, violenze, soprusi). Che per reazione a un’atmosfera tendenzialmente violenta nei confronti della loro categoria le donne si compattino tra di loro, accendendo forme nuove di solidarietà e “sorellanza” (una parola che poco amo) è un dato più che positivo, qualcosa di cui rallegrarsi. Ma che tale forma di impegno si riverberi sulla finzione letteraria, che la narrativa debba giocoforza prendere le parti di una causa, sposare un’idea, immiserisce il valore della vita stessa dei romanzi. Non si scrive per dimostrare tesi, non ci si rassembla in nome della letteratura, né manipolando un uso dei suoi effetti o una gestione dei suoi temi. Una buona notizia, che vi siano tante donne scrittrici, ma migliore ancora quella che in genere vi siano molti scrittori (sin troppi, diciamolo pure). Se ci si trova, come scrittrici e come lettrici, è anche per dialogare con altri scrittori e lettori. Non per auto-confinarsi, né per vendicarsi.
Il corporativismo, cosa ha a che fare con la potenza delle parole? Tanta strada è stata fatta per la libertà e l’emancipazione delle donne, molta altra ne andrà percorsa. Ma che per questo l’universo romanzesco e la politica culturale letteraria debbano implicare un associarsi escludente, una sorta di generalizzata e banalizzante “faida al femminile”, impressiona negativamente e inquieta.