Arresto di ebrei condotto a Parigi dalla polizia francese il 20 agosto 1941
Anticipiamo una parte della prefazione di Alessandro Zaccuri per A tutti gli interessati di Raymond Federman, ripubblicato ora da Einaudi (pagine 168, euro 18,00). Morto nel 2009, Federman è stato uno dei massimi studiosi di Samuel Beckett.
Raymond Federman era nato due volte e per due volte si era salvato dalla Shoah. Secondo l’anagrafe era venuto al mondo il 15 maggio 1928 a Montrouge, alla periferia di Parigi, in una famiglia ebrea di scarsissime disponibilità economiche. Il padre, Simon, era un pittore surrealista del quale la storia dell’arte non ha conservato memoria. Pare che l’uomo avesse però un certo fascino da seduttore, del quale approfittava volentieri. Le entrate domestiche dipendevano principalmente dalla madre, Marguerite, che lavorava come donna delle pulizie. […]
La seconda nascita, invece, risaliva per lui al 29 maggio 1942. In quella data il regime collaborazionista di Vichy aveva disposto che tutti gli ebrei francesi portassero cucita sugli indumenti la famigerata stella gialla. Con burocratica perfidia, venivano dispensati i minori di sei anni. Il quattordicenne Raymond era troppo grande per trarre vantaggio da quell’ipocrita concessione. Fu allora che si rese conto di che cosa significasse essere un ebreo.
Poco più tardi, tra il 16 e il 17 luglio dello stesso anno, venne il rastrellamento del «Vel’ d’Hiv’», il Velodromo d’inverno, nel quale furono imprigionati non meno di tredicimila ebrei. Secondo le stime, almeno un terzo erano bambini. Anche in questo caso Raymond non era tra loro. Al momento della retata, la madre, ancora lei, aveva avuto la prontezza d’animo di spingere il ragazzo in uno sgabuzzino. Chut!, gli aveva detto: stai zitto. Con il passare del tempo, quell’ordine – impartito attraverso un’espressione onomatopeica, al contempo intraducibile e universale – si sarebbe trasformato in una specie di emblema dell’intera opera di Federman: una conferma dell’impossibilità e della necessità di essere uno scrittore, e uno scrittore ebreo. Di tacere e, insieme, di rendere pubblico quel silenzio.
Quella era stata la sua prima salvezza, incomprensibile e addirittura tormentosa. Per tutta la vita, infatti, Federman continuò a interrogarsi sui motivi di un gesto che, probabilmente, non aveva altra spiegazione al di fuori dell’istinto, ma le cui conseguenze sarebbero state incalcolabili. Obbligandolo a nascondersi, la madre gli aveva salvato la vita, certo, ma lo aveva anche condannato al rimorso del sopravvissuto, un sentimento che Federman conosceva bene e che gli rendeva particolarmente cara la testimonianza di autori come Jean Améry e Primo Levi. Più distante, ai suoi occhi, era la posizione di Elie Wiesel, nella quale intravedeva un’insidia moralistica.
Nell’esperienza del giovanissimo Raymond le ore trascorse al buio nel ripostiglio, mentre l’appartamento viene razziato dai vicini di casa, assumono subito il valore di una scena primaria. […] L’immagine di quel ragazzo seminudo, che nell’oscurità dello sgabuzzino soddisfa le esigenze elementari dell’alimentazione e dell’evacuazione, occupa il centro della scena anche in A tutti gli interessati, il romanzo del 1990 al quale più rimane legata la notorietà di Federman presso una larga parte del pubblico.
Nonostante la struttura volutamente elusiva e frammentaria, il romanzo resta accessibile e appassionante. L’autore racconta di sé attraverso la mediazione di un personaggio senza nome, così come nel libro sono innominate le città e le nazioni di volta in volta evocate – Parigi, Israele, gli Stati Uniti – e la stessa condizione di ebreo. Ad avere un nome, Sarah, è la cugina con la quale Raymond condivide la sorte di una contrastata sopravvivenza. Da compagna, Sarah è destinata a diventare il doppio di questo Raymond sotto mentite spoglie (da adulto il personaggio del romanzo sarà scultore, non scrittore, ma in compenso nel libro c’è uno scrittore che si arrovella su come raccontare la storia). Nel libro il vagabondaggio della bambina per le strade della capitale francese occupata dai nazisti viene descritto con una cura e una partecipazione che servono, tra l’altro, a far perdere le tracce del protagonista.
Federman, in effetti, non è mai stato prodigo di dettagli su quello che gli era accaduto dopo che si era deciso a uscire dal suo nascondiglio. Ricongiuntosi con i parenti nel Marais, si era fidato di loro, che a loro volta si erano fidati della propaganda di regime. Insieme erano saliti su uno dei treni che da Parigi, si diceva, li avrebbero portati in una località più adatta al loro statuto di apolidi, che lo stesso governo di Vichy aveva decretato. Durante una sosta di quel viaggio verso il nulla, Raymond, tormentato dalla fame, aveva adocchiato un convoglio di viveri fermo sul binario lì a fianco, era sgattaiolato fuori dal vagone e si era riempito la pancia di patate crude. Il treno era ripartito senza di lui. Disperato all’idea di ritrovarsi definitivamente solo, il ragazzo aveva cercato di inseguirlo, ma aveva dovuto rinunciare. Era così che si era salvato la seconda volta: mangiando l’immangiabile e perdendo la coincidenza per Auschwitz.