Una scena di 'La dolce vita' di Federico Fellini - Epa
Marco Bertozzi è un esploratore di affascinanti documentari scomparsi, quadri testimoniali e rievocativi di storie, che propone come documentarista, insegnando all’università Iuav di Venezia quest’arte niente affatto semplice, che ci attrae come da un doppio mondo di realtà specchiata. Il suo ultimo libro, L’Italia di Fellini. Immagini, paesaggi, forme di vita (prefazione di David Forgacs, Marsilio, pagine 200, euro 20), corona nel modo più felice il centenario felliniano, catturando da ogni lato il più profondo sguardo che sia stato gettato da un artista italiano del Novecento sul nostro paese. Bertozzi ha la duplice competenza dello studioso e del filmmaker: su Fellini (oltre a saggi ha curato con Giuseppe Ricci Bibliofellini in tre volumi 2002-2004, e con Studio Azzurro e altri ha progettato il Museo Federico Fellini di Rimini) e sul documentario (ha pubblicato per Marsilio Storia del documentario italiano, 2018; Recycled cinema, 2020; Documentario come arte, 2020; condotto per Rai Storia Corto reale. Gli anni del documentario italiano). Perciò la sua riflessione è la più complessa e completa, oltre che la più sistematica – ciò che nessuno aveva compiuto prima – sull’argomento principe del cinema di Fellini: l’Italia vissuta attraverso le trasformazioni dei due dopoguerra: l’ultima di tale consistenza da semi- distruggere la civiltà contadina, con la sua storia arcaica di paesaggi, menti, nomi, dialetti, costumi, infinitamente molecolari e differenziati. Questo studio, strutturato in sette fondamentali campi d’indagine, inizia dalle origini: Rimini e Roma, il borgo e la metropoli di cui Fellini è l’'architetto' che ne ridefinisce gli immaginari urbani in ogni risonanza di miti e simboli, esteso a tutta l’Italia, attraverso un’autoanalisi personale che coinvolge ogni cittadino del mondo. Per il regista dell’immaginazione suprema, anche l’apprendistato con Rossellini aveva significato concepire una visione, ben aldilà del rozzo modo di intendere il neorealismo, per cui sembra che si tratti solo di fotografare tut- to come capita: «davanti all’obiettivo uno mette soltanto se stesso». ( Intervista sul cinema a cura di Giovanni Grazzini, 1983). A ogni film Fellini cercava se stesso mentre si apriva verso l’altro, e trasformava radicalmente la cultura dei nostri giorni. In un approccio interdisciplinare d’antropologia, filosofia, geografia, critica cinematografica, letteraria, artistica, Bertozzi segue il più anomalo e inafferrabile dei registi, tanto privo di 'teorie' quanto ricco di pensiero, che accetta l’Italia 'così com’è', fuori dei luoghi comuni e senza intenti pedagogici né patriottici. Interseca le voci critiche che hanno osservato le sue evoluzioni con i pregiudizi ideologici e le classificazioni improprie, a partire da quel problema di 'registrazione' della 'realtà', che fin dall’inizio l’ha messo in conflitto con il neorealismo 'puro e duro' sbandierato da 'Cinema Nuovo' di Aristarco; mentre interessanti rapporti si intessevano con altri, per esempio Vittorio De Seta (colui che gli presenta Bernhard), in una sorta di complementarietà, come potevano averla Pasolini o Calvino, pur nelle differenze d’ottica sul presente. Bertozzi segue il processo di invenzione di Fellini, da La strada, con le collaborazioni di sceneggiatori quali Pinelli e altri, alla Voce della luna, dove torna Pinelli, ma il vagabondaggio con Cavazzoni contribuisce all’ultimo quadro di una fantasia spinta oltre la Romagna di Amarcord con Tonino Guerra, verso la Padania di follie, e l’Ariosto dei voli sulla luna. A quella necessità di reinvenzione continuamente rinnovata che dalla Dolce vita «diventa paradigma di una modernità stilistica senza pari [...] con echi che investono l’intero sistema mediale», Fellini si affidava sempre più, incondizionatamente, con un rigore assoluto della ricerca: cercava di estrarre da sé quanto più contava del proprio pensiero, che doveva ubbidire alla libertà dello spirito, all’umanità, alla comunicazione tra gli esseri, a un concetto di bello che preferiva identificare con ciò che è vitale, che continua a vivere, e aumenta la vita attraverso il tempo. L’Italia di Fellini è tanto più vera quanto più ricostruita dalla visione. Talmente intensa, perfino, da costituire nuovi paesaggi italiani e influenzarne l’immaginazione ulteriore: quelli che potremmo attribuire alla stessa magia dei quadri dei nostri pittori rinascimentali o delle tradizioni più remote, ma anche quelli della disgregazione e del vuoto che sempre più Fellini osserva e testimonia. Li fotografava con i suoi sogni e le sue angosce profetiche anche nel passato – nel Satyricon, nel Casanova, nella Nave va – o vedendo dappertutto nel presente i segni della putrefazione. Ne emerge «l’eccentricità di un paese che si vuole europeo ma frequenta ancora le rotte degli antichi dèi», l’idea del cinema «quale arte inscritta nell’Italia del Novecento, ma nutrita di poderosi germi a lei antecedenti». La forzatura espressiva di Fellini (non solo il ritratto grottesco del fascismo) è capace di un’aderenza rara. Calvino notò che le sue immagini, «per quanto grottesca sia la caricatura, hanno sempre un sapore di verità». Era la qualità del-l’artista immaginativo e mitografo, che sapeva reinventare i miti e i simboli restituendoli alla più complessa verità. Al termine del suo ricchissimo libro Bertozzi giustamente ricorda l’altra qualità peculiare di Fellini: il profilo umano unico. Quanto fosse inesauribile il desiderio dei suoi incontri: «la disponibilità alla conoscenza non protetta, all’interrogazione curiosa, all’ascolto delle genti del suo incredibile paese resta un’eredità luminosa, una condizione di soglia rinnovata alla visione di ogni film, di ogni intervista, di ogni estratto documentario».