Il regista Pupi Avati
Ci sono passioni che non si spengono mai, che per un po’ se ne restano sepolte sotto la cenere, pronte a infiammarsi di nuovo. È capitato a Pupi Avati, tornato a un genere a lui assai congeniale, il gotico, nel quale si iscrivono alcuni dei suoi film più amati, come Balsamus, l’uomo di Satana, che risale al 1968, Thomas e gli indemoniati (1979), La casa dalle finestre che ridono (1976), divenuto un vero film di culto, Zeder (1983), L’arcano incantatore (1996) e Il nascondiglio (2007). Avati torna infatti nelle sale italiane il prossimo 22 agosto con Il signor diavolo, realizzato dal regista bolognese a partire dal suo omonimo romanzo, distribuito da 01.
La vicenda ci riporta in una zona rurale cara ad Avati, quella della bassa Pianura Padana dove nell’autunno del 1952 un ragazzo deforme, Emilio, rampollo di una ricchissima famiglia del luogo, viene ucciso da un coetaneo, Carlo, che lo vede come l’incarnazione del diavolo. Quando emerge che un convento di suore potrebbe essere coinvolto in questa losca faccenda, temendo che la Chiesa venga accusata di oscurantismo e che la Dc possa restare coinvolta in uno scandalo nel cattolicissimo Veneto, viene inviato da Roma un funzionario per dimostrare che nessun religioso del piccolo paese ha plagiato il giovanissimo assassino.
«Il cinema italiano dovrebbe frequentare più spesso il genere - dice Pupi Avati - eppure, fatta eccezione per alcuni autori, nel nostro Paese si producono solo commedie, coinvolgendo più o meno sempre gli stessi attori. Il signor diavolo è frutto della mia nostalgia per il fantastico».
Tornato dunque al suo vecchio amore, Pupi Avati dimostra ancora una volta la capacità di affrontare il gotico pagano in maniera molto personale, mettendo in gioco suspance e paure, religiosità e superstizioni contadine. Chi ha letto il romanzo però dovrà aspettarsi un finale diverso. «Tengo molto che in questo film 'de paura', come si dice a Roma, emerga comunque la mia cifra stilistica. Il gotico mi ha permesso intanto di scrollarmi di dosso l’esperienza televisiva, che seppur positiva, era molto ancorata alla realtà. Picasso diceva che ci vogliono molti anni per tornare giovane e io, diventando anziano, mi avvicino sempre più al trentenne che ero quando ho cominciato a fare questo lavoro. Il fantastico è il punto di forza di altre cinematografie, ad esempio quella nordamericana, capace di coniugare autori e generi. In Italia invece, a parte Dario Argento, nessuno regista significativo ha frequentato questo genere».
All’età di 80 anni Avati confeziona dunque un film destinato probabilmente a conquistare i più giovani, da sempre attratti dall’horror. «Mi capita spesso infatti di incontrare ragazzi che mi chiedono di autografare i manifesti dei miei horror. È un genere che non scade perché attinge all’elemento più segreto di noi stessi, la paura, che ci tenta e ci respinge al tempo stesso. Spaventare è un piacere che mi mancava da moltissimi anni, eppure la scena più agghiacciante del film è stata per noi la più divertente perché sui set di queste storie si crea una sorta di euforia infantile che riporta alle origini del cinema». Uno dei temi sui quali si sofferma il film è l’esistenza del Male. Per citare Baudelaire, la più grande astuzia del diavolo è quella di farci credere di non esistere. «Il male certamente esiste, e noi lo subiamo. Io stesso mi metto tra le persone che lo praticano perché, lo ammetto, sono una persona molto invidiosa e soffro dei successi altrui. Ma sono anche un cristiano praticante e quindi so che questo non è un bel sentimento. Nel mio film il male è un passaggio di testimone, è diffuso, si occulta bene, per questo mi piacerebbe realizzare un sequel del film». E aggiunge: «Ormai però non si parla più di Male e di demonio, il diavolo è una figura obsoleta, che appartiene agli arcaismi della Chiesa di una volta. Peccato, perché il diavolo era una figura sulla quale fantasticare, che diventava una interessante metafora. Avere delle paure vuol dire arricchire il proprio bagaglio di fantasie. Invece oggi se parlo di diavolo ai miei nipotini non sanno cosa sto dicendo».
Nel film religione e superstizione sono strettamente connessi. «Il mio immaginario è stato nutrito proprio dall’educazione cattolica preconciliare che mi è stata impartita e che si fondava sul senso del peccato, sulla paura dell’inferno. A questo si aggiunge la favola contadina, orrorifica, che costituisce un’altra forma pedagogica non trascurabile. Quando ero piccolo, ad esempio, nelle campagne i bambini deformi o menomati venivano considerati vittime della punizione divina, creature nelle quali si nascondeva il maligno. Una convinzione frutto di una religiosità arcaica, priva della luminosità e dell’apertura del Vangelo».
Per il ritorno a un genere a lui caro Avati ha scelto Chiara Caselli, che nel ruolo nella madre della giovane vittima lascia un segno profondo nello spettatore, e un gruppo di attori che hanno spesso popolato il cinema del regista. «Se ha un senso la presenza mia e di mio fratello Antonio nel cinema italiano sta forse nell’attenzione ad attori 'rimossi', ingiustamente dimenticati. A Chiara, che nel frattempo si era messa a fare la fotografa, avevo offerto il ruolo della madre del piccolo assassino, ma lei mi ha chiesto di fare la madre della vittima. Io non pensavo che fosse adatta, anzi, avevo paura che mi rovinasse il film, ma lei insisteva e io di solito do fiducia alle persone con questa convinzione. Aveva ragione lei, Chiara è stata straordinaria e ha imparato la sua parte con l’accento veneto che le ha insegnato Roberto Citran registrando tutte le sue battute. E poi ci sono Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Alessandro Haber, Massimo Bonetti che si imparentavano bene con l’ambiente descritto. Mi hanno dato anche grande conforto. La vita è così, ti allontani sempre di più da quello che eri, poi c’è un momento in cui comincia la via del ritorno e ti accorgi che tutte le cose che facevi da ragazzo ricominciano a piacerti».