sabato 15 febbraio 2014
​Oggi pomeriggio la squadra russa, la Grande macchina rossa, sfiderà il team Usa dopo aver travolto la Slovenia nella gara d'esordio. E Putin già sogna l'oro che manca da 26 anni.
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È febbre a 90° in tutta la Russia per la nazionale di hockey, la "Bolshaia Krasnaya Maschina" (la Grande Macchina rossa) che oggi sfiderà il team Usa nei Giochi di Sochi dopo aver battuto la Slovenia 5-2 nella partita d'esordio al Bolshoi Ice Dome, che oggi sembrava venir giù dal tifo di casa. Di qui, è cominciato un cammino che deve suggellare la chiusura delle Olimpiadi di Putin con una finale possibilmente d'oro. La Grande Macchina rossa è condannata a vincere, a non mancare l'appuntamento con la storia voluto a tutti i costi da leader del Cremlino, artefice di questi Giochi trasformati in vetrina del suo potere e della rinascita russa. Una rinascita che deve passare prima di tutto dalla vittoria nell'hockey, metafora della prova di forza di una intera nazione davanti al mondo. Lui stesso ha imparato due anni fa a praticarlo, disputando anche qualche partita con il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, "l'ultimo dittatore d'Europa". Un modo per rilanciare questo sport un tempo simbolo di un incontrastato primato sovietico: sette ori olimpici (record a pari merito con il Canada), il primo nel 1956 a Cortina d'Ampezzo, l'ultimo nel 1988 a Calgary. Per quasi 30 anni quella nazionale bastonò tutti: ai Giochi gli altri lottavano solo per l'argento. Dopo il crollo dell'Unione sovietica, però, è iniziata la discesa: ad Albertville, nel 1992, l'oro era targato Csi, la comunità di stati indipendenti nata dalle ceneri dell'Urss. Poi un argento a Nagano nel 1998, e l'ultima volta sul podio col bronzo a Salt Lake City 2002. Infine l'abisso: il sesto posto a Vancuver nel 2010, fatti fuori ai quarti di finale con un umiliante 7-3 dal Canada, attuale campione olimpico. Ecco perchè, a 26 anni dall'ultimo oro made in Urss, "è giunta la nostra ora", come titola il maggiore quotidiano sportivo russo, Sport Ekspress. La Russia spera in una finale contro il Canada, per riscattare Vancouver, ma intanto oggi, sotto gli occhi di Putin, dovrà vedersela con gli Usa, in una partita che ha risvolti non solo sportivi. Certo, c'è da vendicare l'imbarazzante sconfitta del 1980 a Lake Placid, quando un gruppo di giocatori di college Usa non ancora passati al professionismo sbaragliò a sorpresa 4-3 in finale l'imbattuto squadrone sovietico: un'onta immortalata anche sul grande schermo, dal film "Miracle on ice". Ma dopo 34 anni resta anche la voglia di una rivincita politica sullo storico nemico della guerra fredda, i cui venti sono tornati a soffiare nelle difficili relazioni russo-americane, incrinate tra l'altro dallo scudo anti missile Usa e dall'asilo politico russo all'ex spia statunitense Snowden. Schierata tutta sul palco della Puskhin Hall, la squadra russa faceva paura: "Perché siamo venuti tutti? Solo una squadra unita è una vera squadra", ha sottotitolato Tretiak. Ma il team sente il fiato sul collo. L'allenatore mette le mani avanti: "sogniamo l'oro ma oggi non è il 1980, la medaglia d'argento e perfino quella di bronzo non sarebbero un fallimento". Nella squadra russa ci sono almeno 16 giocatori della Nhl, la lega professionistica americana di hockey. Il giocatore icona, l'uomo copertina della nazionale, è Aleksandr Oveckin, capitano dei Washington Capitals, fidanzato con la tennista russa Maria Kirilenko.
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