Niccolò Fabi (foto di S.Amini)
«Ci sono alcuni neologismi che ogni tanto mi invento e che mi piacciono… Ma prima con un suo collega mi è uscito un “guarizione” al posto di guarigione, che no, non va…». Parole che fanno bene per chi vuol capire e sa ascoltare. Comincia con questo “fuori onda” molto filologico l’incontro con il “sessantottino” (è nato il 16 maggio 1968) Niccolò Fabi alla vigilia del suo concerto “finale”: domenica 26 novembre al Palalottomatica di Roma. Poi, dal giorno dopo, un indefinito e indefinibile anno sabbatico. Il più intimistico e sensibile creatore di testi tra i cantautori italici non lascia la musica, come qualcuno aveva favoleggiato, ma si prende una semplicissima pausa caffè, «magari di quelli lunghi, all’americana» dal palcoscenico. E lo fa per Una somma di piccole cose , titolo del suo album più riuscito (del 2016), «il mio piccolo trionfo personale», per riprendere un po’ fiato dopo vent’anni vissuti di corsa, spettinandosi i pensieri tra folate calde e appassionate di Vento d’estate. Vent’anni esatti, a partire da quell’ironica Capelli «che poi, nella sua versione originale così ironica non doveva essere ma lo è diventata per proporla al Festival di Sanremo (1997)», fino all’ultimo capitolo di questo primo ciclo fabiesco: Diventi Inventi (doppio cd più cofanetto con volume in edizione limitata, Universal). Uno stop, un Novo Mesto per poi magari riaccendere tra un po’ un altro tipo di rewind e dire Ecco, sono tornato. Ma da lunedì prossimo, Fabi ha deciso di cantare sottovoce o magari sotto la doccia senza per forza dover condividere con il suo amato pubblico che in tutto questo tempo è andato a scovarlo dentro a un palazzetto dello sport di provincia, in un teatro di Berlino o sotto le luci fioche di una cantina romana, dove tutto è cominciato, «parecchio tempo fa».
Prima di chiudere questa pagina di storia e di metterci un punto, viene da chiederle: ma era davvero questa la vita e il mestiere che voleva?
«Credo che non avrei potuto chiedere di meglio. La musica e la creazione delle canzoni sono un contenitore dove dentro ci puoi mettere di tutto. Il mestiere del cantautore è un lavoro simbolicamente significativo. Ho cercato nel tempo di arrivare a una scrittura “pura” a una ricerca di combinazioni tra parole e suoni che per essere creazione viva e che arrivi a chi ascolta necessita di sacrifici, di sforzi vitali. Esserci riuscito, mi dà la possibilità di chiudere un ciclo, di fermarmi a ripensare per magari ripensarmi».
Nelle sue canzoni si trovano tanti frammenti vitali, microstorie, immagini nitide, quasi degli strappi di vecchie e nuove fotografie, ma non cede mai alla tentazione citazionista o al cantautorato “intellettuale”.
«È vero. Ma per due motivi: uno stilistico, l’altro è che anche da ascoltatore ho sempre pensato che le cose più auliche non si sposassero poi così bene con la musica. Per questo ho sempre prestato più l’orecchio e attenzione a Battisti piuttosto che a De Andrè. Io amo la musica e non mi piacciono i cantautori letterari ed eccessivamente verbosi, è come se togliessero leggerezza e autenticità a qualcosa che può essere molto grande e profondo anche nel suo essere infinitamente piccolo, come una canzone».
Pur non rientrando nella categoria dei “cantautori letterari” (nonostante la laurea in Filologia romanza) dalla sua produzione ventennale si percepisce un certo interesse, oltre che per la “filosofia agricola”, anche per la letteratura.
«Per fortuna ho letto tanto in passato. In questo momento invece se c’è una cosa che mi fa innervosire è l’essere precipitato anch’io nella frenesia e la compulsività dell’era social che ha reso il libro di difficile collocazione nella mia quotidianità. Tra i buoni propositi per l’anno prossimo – oltre a frequentare di più mio figlio, aggiustare una casa in campagna e curare l’orto – c’è anche quello di recuperare la lettura, assieme a tante altre piccole cose che possono solo arricchire la mia sensibilità artistica».
La “nuova scuola romana”, sempre in evoluzione, si riconosce profondamente nella sensibilità artistica del trio Fabi-Silvestri-Gazzè. Tre anime che si fondono alla perfezione, come dimostrano il tour e il disco Il padrone della festa che avete realizzato.
«Musicalmente e caratterialmente siamo tre tipi molto diversi l’uno dall’altro. Daniele Silvestri è una persona razionale, un grande architetto che cura meticolosamente la costruzione dello spettacolo, un ideatore. Max Gazzè è un istrione, un giocherellone che tende all’alleggerimento del tutto, un attore. Io sto in mezzo a loro e cerco di metterci la mia vena romantica e quella dose di malinconia che mi porto dentro da sempre e che è parte integrante della mia musica oltre che del mio carattere. Anche se poi con i miei intimi riesco ad essere ironico e persino divertente».
In questi anni oltre a salire e scendere da un palco ha viaggiato in lungo e in largo per l’Africa...
«Ho avuto la fortuna di collaborare con Cuamm Medici per l’Africa e di toccare con mano un po’ tutta la realtà subsahariana, Kenya, Uganda, Sud Sudan e Angola. Ho fatto anche un paio di concerti in alcuni locali africani, serate di puro intrattenimento, perciò ho suonato anche cose non mie. Penso di aver dato il mio contributo ma soprattutto ho chiaro in mente chi sono gli italiani e gli occidentali che decidono di realizzarsi rinunciando magari a un posto da primario a casa propria per andare a lavorare in trincea e portare competenza e umanità al servizio delle comunità più bisognose di aiuto».
«La gioia come il dolore si deve conservare, si deve trasformare...». È un po’ il “manifesto” della onlus “Parole di Lulù” dedicata a sua figlia Olivia (scomparsa all’età di due anni, nel 2010, per una meningite fulminante, ndr).
«Noi, quel dolore l’abbiamo trasformato in gioia di vivere. Così abbiamo seminato parchi giochi all’interno dei padiglioni degli ospedali italiani e africani, acquistato ambulanze con i soldi dei concerti e delle partite della Nazionale Cantanti. Ultimo progetto? A Torino, con l’Ugi onlus che fornisce alloggi ai genitori dei piccoli pazienti ricoverati all’ospedale infantile Regina Margherita».
Tutta questa energia, la capacità di difendersi dal dolore è frutto solo della musica o anche di una spiritualità che ha trovato in questi anni?
«La spiritualità è una dimensione talmente vasta e io ci sguazzo dentro con naturalezza. Il senso degli avvenimenti che vanno oltre la vita ti aiuta a ricondurre ogni evento all’interno di un flusso vitale che prescinde da te stesso. E questo non è legato solo alla tua sfortuna o al tuo dramma personale ma a qualcosa che ti precede e che magari dovrà ancora accadere. L’idea di un Dio per me sta dentro a un pensiero infinito, dinanzi al quale la razionalità è costretta a togliersi il cappello e fare atto di umiltà. Ma quell’idea di infinito, e al tempo stesso la condizione di piccola molecola dell’ingranaggio che è l’uomo, la ritrovo anche nell’abbraccio di una sequoia secolare o di un immenso baobab angolano».
Una descrizione senza musica, da narratore: in questo tempo di distacco magari proverà anche a scrivere un libro...
«Ho fatto una fatica da morire per pubblicare un disco che potesse stare tra quelli che mi piacciono e legittimamente ritengo che ci sta, ora immaginare di scrivere un libro da mettere sugli scaffali a fianco a quei capolavori che ho letto e con cui sono cresciuto è un’idea suggestiva, che mi sfiora – si ferma e sorride –. Ma la vedo tostissima. Però chissà, che l’otium non porti consiglio e anche nuove forme di scrittura, per quando ripartirò... ».