Il capitano della Nazionale Giacinto Facchetti alza la Coppa dei campioni d’Europa del 1968
Pensaci Giacomino, pensa a com’era l’Italia nelle notti calde di giugno del 1968, quando la gente affollava i bar, tutti davanti alla televisione, il cassone, con sopra la gondola luminosa e il centrino ricamato a mano dalla nonna, che in bianco e nero rimandava le immagini della partita di pallone. Quel 5 giugno Giuseppe Daniele, in arte “Pino”, era uno scugnizzzo di 13 anni e forse sotto quel cielo carico di pioggia che bagnava Napoli cominciò a trovare gli accordi giusti alla chitarra per la sua eterna Quanno chiove. È l’immagine poetica con cui lo strano tandem da storia di cuoio composto da Stefano Ferrio (scrittore, autore del bel romanzo La partita) e Gianni Grazioli (giornalista e direttore generale di Assocalciatori), aprono un capitolo nodale – “Italia-Urss. Il Fato scende in campo” – del loro libro Azzurri d’Europa (Minerva edizioni. pagine 343, euro 25,00).
Una lunga storia d’amore riletta con doppio passo, quello della cronaca e dell’aneddotica accurata di “ex giovani” (gli autori sono due sessantenni) amanti del calcio nazionale, e lo stile del romanzo popolare, in cui la vita di un Paese e quella di 11 giocatori in campo spesso ha coinciso quasi perfettamente. Così, quel pomeriggio del 5 giugno un governo che per il popolo era già «ladro », concesse l’uscita anticipata dalle fabbriche napoletane (allora ce n’erano) alle ore 16 «per raggiungere in tempo lo stadio San Paolo – scrivono Ferrio e Grazioli – dove alla fine l’incasso sarà di 116 milioni di lire, pari a un milione degli attuali euro. Quanto sta per accadere in campo dimostrerà alla fine che sono stati soldi ripagati».
I napoletani hanno occhi solo per il loro idolo. È “Totonno” Antonio Juliano, azzurro partenopeo che ai suoi compagni di squadra del Napoli a fine gara chiede sempre di dividere i premi partita con le «basse forze», i magazzinieri, i custodi del San Paolo. Un giro di lancette e la semifinale appena cominciata per Gianni Rivera è già finita. Non basta l’antidolorifico portato nella borsa medica dal dottor Fino Fini (custode fino alla fine, è scomparso nel settembre scorso, dei segreti azzurri alla biblioteca di Coverciano) per rimettere in piedi l’Abatino che fino al triplice fischio, stoico, passa dal ruolo del divino “10” a quello dello «zoppo».
Perché all’epoca caro Giacomino, pensa, le sostituzioni non esistevano (sotto Covid sono salite a 5). E la sofferenza dell’uomo in meno aumenta quando terminati i febbrili 90’ sotto le luci a intermittenza dei riflettori si va ai supplementari. Il ct “Zio Uccio” Valcareggi deve tirare fuori dalla mischia contro i ruvidi e potenti russi, Giancarlo Bercellino, detto “Berceroccia”, e spostare nel ruolo di stopper la vera 'Roccia azzurra', Tarcisio Burgnich, che come saprai, Giacomino, ci ha appena lasciati, a 82 anni. Poco prima di lui, ha salutato anche Pierino “la Peste” Prati (morto in una casa di cura dopo lunga malattia) che in quella semifinale, pestifero appunto, tentò la via della rete fino all’ultimo respiro.
Ma contro la corazzata Potemkin alzata dalle guardie rosse davanti alla porta dell’erede di Jascin, Psenicnikov, non c’era nulla da fare. Al termine dei 120 sudatissimi minuti, risultato congelato, da notti bianche a San Pietroburgo, 0-0. Tutti negli spogliatoi senza passare dalla roulette, anche quella russa, dei rigori che spesso ha reso vano l’assalto Europeo dell’Italia. La lotteria dal dischetto degli 11 metri che adesso regala titoli e Coppe non era stata ancora contemplata. Per lo scriba massimo Gianni Brera, «0-0 è il risultato perfetto», ma per il regolamento degli Europei del ’68 trattasi di un verdetto parziale che porta dritti dritti alla fatal monetina.
Dal taschino della Uefa rispunta quella stessa moneta che nel 1954 aveva qualificato la Turchia – tra sette giorni, avversaria a Roma della tua Nazionale caro Giacomino – ai danni della Spagna. «Ero seduto in tribuna, con il fiato sospeso in attesa della sentenza, quando dal tunnel degli spogliatoi del San Paolo vidi uscire in tuta Giacinto Facchetti... Allora capii che la sorte era stata benevola con noi, la monetina era girata dalla parte dell’Italia. Il giorno dopo ci divertivamo a prendere in giro Facchetti. «Chissà che cosa gli hai fatto a quella monetina. Aveva una faccia sola vero Giacinto, eh?...», ricordava ancora divertito di quella notte sotto il Vesuvio e lo faceva con il sorriso fresco dei suoi vent’anni Pietruzzo Anastasi, bomber del Varese nato sotto l’Etna, a Catania.
«Un colpo di fortuna e la dea bendata non ci abbandonò neppure in finale quando ci trovammo di fronte la Jugoslavia. La partita del mio debutto, ero un ragazzino e le gambe mi facevano “giacomo-giacomo”», mi ha raccontato a più riprese Pietruzzo che, con gli occhi scuri de ’U Turcu, era come se fissasse ancora l’incanto dello stadio Olimpico di Roma illuminato a festa. Alle ore 21.15 dell’8 giugno «in una serata fresca da stornellate trasteverine brindando a Frascati» si erano dati appuntamento 85mila cuori azzurri per la finalissima contro la Jugoslavia titina che a Firenze aveva eliminato gli inventori del football, i lord inglesi della nazionale dei Tre Leoni.
Gli slavi, già allora palleggiatori degni della nomea di brasiliani dell’est europeo, passarono in vantaggio nel primo tempo con Dzajc. La selezione del ct Mitic si rivela superiore all’Italia del debuttante Anastasi che trova il pareggio con il favoloso “Domingo”, Angelo Domenghini. Uno degli eroi, con Gigi Riva, di quello storico ed unico scudetto del Cagliari che arrivò nella stagione 1969-’70. Grazie alla rete di Domenghini, anche dopo i tempi supplementari il tabellone elettronico dell’Olimpico si spegne sotto la luna lisciata dal ponentino sull’1-1. Serve la replica per assegnare il titolo europeo e due sere dopo, il 10 giugno, stesso stadio stesso avversario, ma a far coppia in attacco con Pietruzzo c’è la novità: “Rombo di Tuono” Gigi Riva. Entra in scena il leggendario bomber, varesino doc Gigi da Leggiuno, che spiana la strada del trionfo andando in gol al minuto 12. Poi, alla mezz’ora, l’apoteosi: «Trovo un tiro incredibile da fuori area che finisce nell’angolo destro della porta difesa da Pantelic», così ricorda Pietruzzo la rete del definitivo 2-0.
Fermo immagine per Giacomino e tutta la sua generazione di millennials. L’esultanza composta eppure vulcanica di Anastasi è «una corsa più lieve e danzante di quella prorompente con cui Tardelli accompagnerà il suo celeberrimo urlo (Mundial di Spagna ’82), serializzato in infiniti replay», scrivono Ferrio e Grazioli. Quello era un urlo mondiale, la gioia innocente e contenuta di Pietruzzo invece era un sigillo europeo, rimasto unico come lo scudetto del Cagliari. Un lampo che chiudeva il decennio del boom e per una notte il tricolore ammantava le spalle degli studenti reduci dagli scontri di Valle Giulia (1° marzo 1968). Una tregua nazionale, una delle tante concesse dal calcio. E quella volta grazie a quegli Azzurri che fecero l’impresa, esattamente trent’anni dopo l’ultimo successo internazionale: la Coppa del Mondo conquistata dall’Italia di Vittorio Pozzo.
I giorni seguenti non c’era più un Duce a Palazzo Venezia a consegnare il premio in denaro ai calciatori della Nazionale, ma Anastasi e tutti i ragazzi di “Zio Uccio” Valcareggi salirono al Quirinale per essere nominati Cavalieri della Repubblica. Nove di quei Cavalieri azzurri ora non ci sono più. In ordine di tempo se ne sono andati: il cuore Toro Giorgio Ferrini (una delle tanti morti misteriose del pallone italiano, aveva solo 37 anni), la bandiera interista Giacinto “Magno” Facchetti, il coriaceo difensore Sandro Salvadore, l’onorevole Giacomo Bulgarelli (il più amato dal Poeta, anche del gol, e tifoso del Bologna, Pier Paolo Pasolini), l’elegante Roberto Rosato e l’“anguilla” Angelo Anquilletti.
Nel 2019-2020, la tragica stagione della pandemia mondiale che ha strappato al Paese tante delle più belle figure in ogni campo, hanno salutato, come detto, Prati e Burgnich. Ma prima di loro, il 17 gennaio 2020, la Sla – Sclerosi laterale amiotrofica, il “Morbo del pallone” (ha ucciso almeno 60 calciatori, di cui non si parla quasi più) ha portato via anche Anastasi. Uno che quando divenne Cavaliere della Repubblica, caro Giacomino Raspadori, bomber del Sassuolo e azzurro della Nazionale del ct Roberto Mancini, aveva un anno meno di te, 20, e con il suo sorriso dolce da hombre vertical, Pietruzzo amava ripetere: «Pensa, diventai campione d’Europa e non ero ancora maggiorenne, perché in quell’Italia lì ci diventavi a 21 anni».