Derry, 30 gennaio 1972: i violenti scontri della Bloody Sunday - Ansa
Nel 50° della Bloody Sunday sabato 22 presso il Villetta social lab di Roma (via degli Armatori 3, ore 17) saranno presentati gli Scritti dal carcere di Bobby Sands e Il piccolo di papà di Tony Doherty (del quale l’autore dell’Introduzione dà qui un’anticipazione). Parteciperanno Andrea Binelli, curatore del libro di Doherty, Enrico Terrinoni, curatore di quello di Sands, e Riccardo Michelucci. L’incontro sarà preceduto dal restauro del murale 'You are now entering' in via San Nemesio.
L’infanzia di Tony Doherty finì all’improvviso esattamente cinquant’anni fa, in un giorno di festa che sfociò in uno dei più gravi massacri compiuti dall’esercito britannico in Irlanda del Nord. Domenica 30 gennaio 1972 migliaia di uomini, donne e bambini manifestarono pacificamente per le strade di Derry reclamando uguaglianza e pari dignità sul lavoro, il diritto alla casa e la fine del voto per censo, all’epoca ancora in vigore nella piccola provincia britannica. Ma l’imponente corteo partito dalle alture che dominano il centro cittadino non arrivò mai a destinazione. Quando i manifestanti raggiunsero il ghetto cattolico di Bogside un reggimento speciale di paracadutisti inglesi armato con mitragliatrici pesanti iniziò a sparare sulla folla. Tredici uomini rimasero uccisi e un altro - gravemente ferito - sarebbe morto alcuni mesi dopo. Tony Doherty, l’autore del toccante memoir Il piccolo di papà. Storia di un’infanzia nell’Irlanda del Bloody Sunday (Nutrimenti, traduzione di Maria Antonietta Binetti, pagine 160, 17 euro), aveva appena nove anni quando il suo amatissimo padre entrò nell’elenco delle vittime di una strage che era destinata a far precipitare l’Irlanda in uno dei periodi più bui della sua storia recente. Nelle settimane successive centinaia di giovani irlandesi, spinti dalla disperazione e dal desiderio di vendetta, andarono a ingrossare le file dell’Ira, l’esercito irlandese clandestino che si batteva contro gli inglesi. Le conseguenze di quella tragedia avrebbero lasciato un segno indelebile in alcune generazioni, distruggendo l’infanzia e la gioventù di molti, e avvelenando la vecchiaia di altri. Tony Doherty aveva già l’età per sentire sulla sua pelle, fin da subito, l’immane senso di vuoto causato dalla perdita del padre. Ma al tempo stesso era troppo piccolo per comprendere il motivo della sua morte e per poter razionalizzare la sua mancanza. Col trascorrere degli anni quel senso di vuoto è cresciuto fino a diventare una voragine poiché la perdita è stata aggravata da un’altra ferita: quella dell’ingiustizia e della verità negata. Eppure ciò che era accaduto nella cittadina nordirlandese non lasciava spazio alle interpretazioni. Tutte le prove, le perizie balistiche e le testimonianze avrebbero chiarito senza ombra di dubbio che i soldati inglesi avevano sparato su civili inermi con il chiaro intento di uccidere. Ma Londra fece di tutto per scagionare l’operato dell’esercito, avviando in tutta fretta un’inchiesta che rove- sciò il marchio dell’infamia sulle vittime, accusandole di aver sparato per prime sui paracadutisti. Alcuni anni dopo la morte di suo padre, Tony Doherty avrebbe seguito le orme di molti giovani della sua generazione entrando a far parte dell’Ira. Finì in prigione quasi subito e lì imparò a dominare la rabbia che aveva dentro di sé canalizzandola verso la lotta politica. Tornato in libertà è diventato uno dei promotori della campagna che chiedeva una nuova inchiesta sulla strage del 1972 e insieme agli altri familiari delle vittime della 'domenica di sangue' ha intrapreso un’epica battaglia legale che avrebbe avuto successo molti anni dopo, sull’onda del processo di pace. Ma quello era pur sempre un percorso collettivo, pubblico, che ancora difettava di una dimensione intima e personale. Ormai diventato uomo, Tony sentì anche il bisogno di conoscere finalmente suo padre e comprese che per farlo avrebbe dovuto rivivere la sua infanzia accanto a lui. Così ha cominciato a scavare nei propri ricordi d’infanzia, a raccogliere testimonianze e frammenti di vita, per recuperare quelle immagini di lui che aveva quasi rimosso, riscoprendo le emozioni di un bambino costretto a crescere in una zona di guerra, dove ogni giorno si verificavano scontri, arresti, omicidi. Attraverso la scrittura è riuscito a dare una traiettoria letteraria a quei ricordi e a riportarci indietro nel tempo, con dolcezza e nostalgia, trasfigurando il suo sguardo lucido di adulto negli occhi incantati di un bambino, ricostruendo un’epoca in cui i ragazzini giocavano ancora a biglie per la strada, creavano giocattoli dal niente e scrutavano il cielo alla ricerca di un razzo lunare americano. Prima di quella domenica maledetta, la sua era stata un’infanzia povera ma felice. Terzo di sei fratelli, era cresciuto con la sua famiglia nell’area di Brandywell, un quartiere operaio di Derry che negli anni ’60 era ancora un ghetto segnato dalla cronica assenza di servizi, di luoghi di aggregazione e di spazi comuni, in un contesto di povertà e desolazione inimmaginabile in qualsiasi altra parte d’Europa. Suo padre, Patrick 'Paddy' Doherty, era un uomo fiero e testardo come soltanto gli irlandesi sanno essere. Tony ha la sua immagine scolpita nel cuore, dal quale estrae piccole istantanee: il suo sorriso, le mani sporche di grasso, gli stivali da lavoro. E poi l’odore delle Park Drive, le sigarette che fuma di continuo. Lo ricorda come se fosse ieri mentre affronta un soldato inglese davanti alla porta di casa. Riesce a farlo rivivere attraverso una serie di flashback commoventi e strazianti, raccontati dallo sguardo di un bambino che ha tra i sei e i dieci anni. Il principale punto di forza del libro è proprio la spontaneità del narratore, le cui percezioni non sono offuscate dall’interpretazione degli adulti ma conservano tutta l’innocenza di un bambino in lotta per comprendere la complessità del mondo che lo circonda. Il suo racconto mostra a tratti una vena d’ironia che può far sembrare tutto un gioco. Ma sulla sua spensieratezza incombe un senso di tragedia imminente, che culmina in quel silenzio surreale e in quella frase pronunciata da sua madre, che sarebbe risuonata per sempre nella sua testa: «Papà è morto. L’esercito gli ha sparato». Da quel momento in poi Tony non potrà far altro che imparare a convivere con quella mancanza e con quel cupo dolore che ancora oggi, dopo tanto tempo, segna le strade, i vicoli e le case della città di Derry. Per cercare di rendere onore alla memoria di suo padre, a partire dai primi anni ’90 Tony Doherty è stato tra i promotori di una straordinaria campagna popolare per la verità che è riuscita a mettere il governo di Londra con le spalle al muro, costringendolo ad avviare sulla 'Bloody Sunday' la più lunga e costosa inchiesta dell’intera storia giudiziaria del Regno Unito. E nel 2010, quasi quarant’anni dopo la strage, un tribunale britannico ha riconosciuto finalmente che i civili uccisi a sangue freddo dai militari di Sua Maestà erano innocenti, che non vi fu alcuno scontro a fuoco al quale i soldati risposero, soltanto una vile aggressione contro cittadini inermi. In un discorso alla Camera dei Comuni passato ormai alla storia, l’allora primo ministro britannico David Cameron definì «ingiustificato, ingiustificabile e sbagliato » ciò che accadde quella domenica di gennaio del 1972, riconoscendo l’innocenza delle vittime e stigmatizzando l’operato dei soldati responsabili della strage. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta i familiari delle vittime salirono sui gradini dell’antico palazzo del municipio di Derry, per sfogare una gioia catartica e liberatoria che nasceva dalla consapevolezza di aver ottenuto qualcosa di inimmaginabile. Quel giorno anche Tony Doherty tornò a essere di nuovo 'il piccolo di papà', quel bambino di nove anni che giocava a biglie per la strada, al quale fu improvvisamente rubata l’infanzia.