Prima di parlare dell’odio, avverte Carolin Emcke, occorre fare un passo indietro. «Ragionare sulle nostre paure, cercare di capire come mai oggi ci sentiamo tanto vulnerabili – dice –. E ricordare che non ci sono risposte semplici. Mi piacerebbe averne, se non altro per dimostrare che mi sono meritata il riconoscimento che mi hanno assegnato. In realtà mi sto ancora interrogando». L’allusione è al premio della Pace dei librai tedeschi che lo scorso anno è stato attribuito a Contro l’odio (traduzione di Lucia Ferrantini, La Nave di Teseo, pagine 218, euro 19,00), il libro che la filosofa ha presentato ieri al Festivaletteratura di Mantova. «Della paura in quanto tale non dovremmo vergognarci – aggiunge –, tutto sta a comprenderne le ragioni».
E quali sono?
«La sensazione generale è che il nostro destino sia nelle mani di qualcun altro: la globalizzazione e la crisi finanziaria sono elementi che hanno minato la sicurezza personale e collettiva. In queste condizioni, la paura è una reazione istintiva, ma alla quale non dobbiamo arrenderci. Ci sarebbe molto da fare, specie sul versante educativo. Ma è proprio qui che le nostre società si dimostrano più deboli. Nei Paesi occidentali le istituzioni sono venute meno al loro compito: anziché operare in difesa della società civile, si sono arrese a un clima in cui la definizione di “brava persona” risulta ormai liquidatoria, se non addirittura insultante. Ospitalità e accoglienza non sono più considerate componenti essenziali della convivenza umana, ma espressioni di un buonismo vacuo o addirittura colpevole».
L’odio si manifesta in forme simili in situazioni anche molto lontane le une dalle altre: come mai?
«A dispetto delle apparenze, l’intolleranza e il pregiudizio non derivano affatto da leggi universali e immutabili. E il fatto che razzismo, xenofobia e antisemitismo riaffiorino in contesti differenti non può essere assolutamente preso come una scusa. Non dobbiamo mai dimenticare che per l’essere umano l’odio non è un’attitudine innata, ma il risultato di scelte specifiche, che si traducono in azioni concrete. Ogni gesto di intolleranza richiede una lunga preparazione in termini di pensiero e volontà. Proprio perché è intenzionale e premeditato, però, l’odio può essere evitato».
In che modo?
«Un primo passo, che considero fondamentale, consiste nel distinguere con chiarezza tra ciascuna persona e le azioni che quella stessa persona può compiere. Non si tratta di condannare o demonizzare, né di emettere giudizi sbrigativi. Ogni volta che si cade in questa trappola non si fa altro che rafforzare la logica della divisione, dell’odio che si contrappone all’odio. Nel mio libro mi soffermo su episodi specifici, cercando di scandagliare la dinamica degli eventi in modo molto dettagliato, alla ricerca delle sfumature più nascoste. È una forma di rispetto che ritengo debba essere riservata anche a chi agisce in un modo che appare incomprensibile e sgradevole. Tenere sempre fisso lo sguardo sulla persona è una delle grandi lezioni che ci vengono dal cristianesimo».
Eppure l’odio è sempre più trasversale, indipendentemente da ogni variabile sociale e culturale…
«I motivi per essere insoddisfatti ci sono, lo ripeto. Molti di noi sono delusi dall’Europa, che non sta affrontando in modo adeguato il dramma della crescente diseguaglianza economica. Nella stessa Germania la mobilità sociale è prossima alla paralisi, mentre Paesi come Italia, Grecia e Spagna sono lasciati soli nella gestione dei rifugiati. Sono problemi che conosciamo, ma che in nessun modo possono essere adoperati per giustificare l’odio. Sarebbe ingenuo postulare un rapporto immediato di causa ed effetto tra insicurezza e intolleranza. Una volta di più, entrano in gioco altri fattori, decisioni e azioni di natura essenzialmente ideologica e politica, che si riverberano in modo evidente sul sistema dei media. C’è una regia molto minuziosa, a prova di algoritmo, che mette a frutto le inquietudini collettive. È un fenomeno globale, insisto. Le cause non sono mai solamente locali».
Come si inserisce, in questo, il confronto con le culture non occidentali, prima fra tutte quella musulmana?
«In modo molto complesso, mi verrebbe da dire. Ma le sfide più difficili sono di norma le più importanti, senz’altro le più urgenti. Oggi si va in cerca dell’immediatezza, della semplificazione estrema. Strada rischiosissima, che porta a fare il gioco di quanti, come il Daesh, puntano alla contrapposizione tra Europa e islam. Sostenere l’incompatibilità tra il Corano e la democrazia risponde perfettamente alla strategia del Daesh, che non ha alcun interesse all’integrazione dei cittadini musulmani. In Germania abbiamo avuto modo di sperimentarlo due anni fa, quando il Governo si dichiarò pronto ad accogliere i profughi siriani. Sui siti della propaganda fondamentalista partì una campagna martellante ai danni di Angela Merkel. Il modello di convivenza che l’Europa rappresenta, con la sua varietà di lingue e culture, è il principale obiettivo del fanatismo fondamentalista, i cui proclami si rispecchiano, non a caso, in quelli dei nostri populismi».
Esiste un’alternativa?
«Sì, l’immaginazione, che allarga i confini del mondo laddove l’intolleranza e l’odio cercano di costringerci in visioni sempre più anguste. Non siamo fatti per vivere al minimo, l’immaginazione ce lo ricorda in ogni istante».
La filosofa tedesca: «Non cadiamo nella trappola delle divisioni. L’alternativa è l’immaginazione che allarga le nostre visioni»
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