Edoardo Vianello oggi 84enne in tour
«Che finimondo per un capello biondo che stava sul gilet, sarà volato, ma com’è strano il fato, proprio su di me...», canta Myss Keta in questa calda estate 2022. Ma non è un brano della misteriosa cantante mascherata che si aggira per le vie e i locali della Milano post da bere, ma si tratta di un testo di Carlo Rossi, del 1961, e della prima storica hit di Edoardo Vianello. «Poche sere fa in piazza a Mesagne, la cantavano anche i bambini, la sapevano tutta! », dice incredulo il più longevo (romano classe 1938) e anche il più popolare della categoria “old is gold” coniata dal “ripescatore” di evergreen, Pasquale Mammaro. Con la cover de Il capello Vianello torna in classifica «un disco d’oro a mia insaputa, ma come si permettono?», sorride divertito l’uomo da 60 milioni di dischi venduti in una carriera senza fine. «Ho appena archiviato il Covid e adesso mi aspetta un agosto pieno di serate», e forse lo attende anche qualche altra scalata di classifica internazionale. Tipo quella di Billboard, estate 2017: complice la serie tv Master of none, in cui i protagonisti improvvisano un twist domestico sulle note di Guarda come dondolo. Il giorno dopo il brano sbancava nella classifica americana.
Ma come se lo spiega questo flusso vintage che parte dagli Usa e arriva fino ai rapper nostrani che per incassare con il tormentone estivo coverizzano o ricopiano i ritmi dei brani anni ’60?
Semplice, la musica attuale è talmente deviata che per ritrovare una logica, una strada dritta e veloce, bisogna tornare alla nostra musica. Questi si sono dimenticati della melodia... Allora i più furbi che fanno? Realizzano a tavolino una canzone di successo ricostruendo quell’atmosfera unica di cui noi “old is gold”, come dice Mammaro, siamo gli ultimi testimoni.
Estate 1960, al cinema dannoLa dolce vita di Fellini e lei si prepara ad andare a Sanremo (prima volta nel ’61) con la canzone Che freddo! che poi avrebbe inciso anche Mina.
È stata una stagione breve ma intensa, in cui si respirava a pieni polmoni il vento del cambiamento epocale. C’era aria di euforia collettiva. Eravamo una generazione che aveva poco, ma quel poco sapeva apprezzarlo e sognava di migliorare ancora. E questo si rifletteva anche nella musica.
C’era forse anche una voglia di condividere tra voi artisti che si è smarrita nel tempo?
Prima che finissimo nella grande casa comune della Rca, che, per creare lo spirito di scuderia organizzava molti eventi, noi cantanti ci incontravamo spesso e condividevamo tante serate. Con i miei tre più cari amici, Domenico Modugno, Franco Migliacci e Gianni Morandi, l’appuntamento notturno era al “Quo vadis”, sull’Appia Antica. Lì su quel palco, appena il locale si svuotava, ci esibivamo. Non vedevamo l’ora di far sentire, l’uno all’altro, l’ultima canzone che avevamo scrit- to, magari quel pomeriggio stesso.
Il suo primo grande successo fu proprio Il capello che inaugura il sodalizio con Carlo Rossi.
Era un grande Carlo, un paroliere di 20 anni più grande di me. E si sentiva la differenza di età, però la mia musica con i suoi testi furono una miscela esplosiva. Se a questo ci aggiungi le trovate di quel genio di Ennio Morricone, ecco spiegate le ragioni del successo delle canzoni che vennero dopo.
Un poker di successi che scaldavano l’estate di sessant’anni fa: Pinne fucile ed occhiali, Guarda come dondolo, Abbronzatissima e i Watussi.
Tutte trattate dal grande Morricone che ha letteralmente inventato l’arrangiamento. Ennio giocava con le mie canzoni e le ha caratterizzate, una per una, rendendole di fatto immortali.
Stregato dalla luna di Vianello anche Dino Risi che nel suo film cult Il sorpasso (1962) inserì Pinne fucile ed occhialie- Guarda come dondolo..
Non sapevo che le avrebbe messe nella colonna sonora e quando lo incontrai gli chiesi cosa lo avesse spinto a farlo. E Risi rispose: «Quelle due canzoni, rappresentavano esattamente l’estate che volevo raccontare». Un altro genio assoluto.
Estate 1963, ormai all’apice del successo generosamente regala alla “debuttante” Rita Pavone il branoLa partita di pallone.
La prima volta che l’ascoltai fu al “Festival degli sconosciuti” di Ariccia e rimasi sbalordito dalla grinta e dalle doti canore incredibili di quella ragazzina. Avevo quella canzone rimasta inutilizzata, tagliata apposta per una voce femminile. Prima di partire in turné dissi a Carlo Rossi di portare il promo a Rita Pavone... Oh quando rientrai in Italia aveva fatto il botto!
Cambio in corsa: nello stesso anno passa dalle canzonette alla “mistica” O mio Signore. Una conversione improvvisa
Macché. Al “Quo Vadis” conobbi Mogol che mi diede un consiglio azzeccato dei suoi: «Edoardo – disse – finora hai fatto cose divertenti, ma adesso è il momento di dare uno schiaffo al pubblico con qualcosa che non si aspetta... Andammo a casa mia e quella notte venne fuori questa “preghiera laica” in cui c’è tanto della mia educazione cristiana e di quella fede che mi ha aiutato a superare momenti terribili, come la perdita di mia figlia Susanna...
Lei è stato il primo a credere anche in Franco Califano.
Lo spinsi a incidere la sua prima canzone, Da molto lontano. Franco, mio coscritto del ’38, era un ragazzo fantastico. La prima volta che lo incontrai lui era il “bello” e io il “famoso”. Mi chiese se poteva leggermi una sua poesia... Beh rimasi stupito: quel testo era l’esatto contrario del personaggio che lo rappresentava. Gli spiegai come scrivere una canzone e dopo pochi giorni tornò e alle sue parole aggiunsi la mia musica.
Insieme diventaste produttori.
La notte dell’allunaggio, 20 luglio 1969, davanti alla diretta Rai decidemmo che la nostra etichetta (una delle sette satellite che faceva capo alla Rca) si sarebbe chiamata come la navicella spaziale americana, l’Apollo Records. Mettemmo sotto contratto Renato Zero, Amedeo Minghi e quei quattro ragazzi amici di Franco, i Ricchi e Poveri. Con loro pubblicammo La prima cosa bella e per Che sarà al Festival di Sanremo del 1971 ci diedero l’accoppiata con Josè Feliciano all’ultimo minuto, ma quella è una di quelle canzoni che resterà per sempre.
Da Sanremo 1966 uscì anche il suo primo successo internazionale Parlami di te.
Fu un insuccesso sanremese, anche se entrammo in finale, ma grazie alla versione francese di Francoise Hardy ha girato il mondo. Quando andai in Brasile fu la prima canzone che mi chiesero di eseguire.
Quali sono i Paesi in cui le sue canzoni sono degli evergreen?
Tutti quelli di lingua spagnola. In Argentina sbarcai alla grande grazie alla scia de Il Sorpasso. E poi è stato tutto un trionfo di vendite di dischi e di concerti: in Cile, Messico, Brasile, Uruguay. Anche negli Stati Uniti e in Canada, ma lì alle serate veniva e viene ancora prevalentemente pubblico di origine italiana.
Storia di chi ce l’ha fatta, nonostante suo padre, il poeta futurista Alberto Vianello, non era affatto d’accordo sul figlio cantante.
Papà è stato il mio nemicoamico. La scuola non faceva per me, ero il più rimandato di Roma. Il suo scetticismo mi sfidava continuamente, ma io testardo e appassionato, con i primi soldi comprai una chitarra e andavo a suonarla di nascosto in cantina. Ai Watussi comunque papà si è arreso, aveva capito che anche economicamente fare il cantante non era il peggiore dei mestieri.
Altra svolta artistica anni ’70: con la sua ex moglie, Wilma Goich, diventate iVianella e cantate Semo gente de borgata..
È stata un’intuizione di Califano. Eravamo in una fase discendente e allora pensò bene che per rilanciarci occorreva ripartire dal basso, dalle borgate care a Pasolini, anche se distanti dalle radici borghesi di uno come me nato a San Giovanni. Oh, c’hanno contestato: a tanti non andava bene quella filosofia che nella vita bisogna accontentarsi...
«Stamo mejo noi che nun magnamo mai», sono versi che suo nipote Andrea Vianello, direttore di Rai Radio 1, non avrebbe mai scritto per lei...
Andrea è geniale – sorride – soprattutto perché non riuscirò mai ad imparare a memoria una sua canzone. Ha scritto tanti testi per me, ma sono tutti intercambiabili, senza consecutio, un flusso di impressioni. Non ci mette mai una banalità e ha abolito il ritornello che purtroppo è il sale delle canzoni di grande successo.
Ma per chi anche questa sera canta «Nel continente nero, alle falde del Kilimangiaro», il sale della vita qual è?
Io l’ho trovato nella scrittura. Con gli appunti raccolti nei miei taccuini ho realizzato 86 puntate per Radio Italia anni 60 e alla fine mi sono accorto che la mia vita era già tutta scritta in quello che diventerà un libro: Nel continente c’ero (Nave di Teseo). In quelle pagine ho messo tutti i ricordi della mia infanzia, i miei genitori, gli amici, le persone più care. È rispuntata perfino la mattonella in cui giocavo da bambino... E certo, anche l’estate dei ’60 e «quei giorni in riva al mar che non potrò dimenticar».