Michelangelo: "Ezechia, Manasse e Amon", dal ciclo degli Antenati di Cristo. Cappella Sistina
È come se in una immagine che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi cominciassero ad apparire delle tessere luminose che fino a poco prima si confondevano nell’insieme. Anzi, da quell’insieme venivano fagocitate in virtù di una interpretazione che aveva dimenticato la cosa più importante: l’immagine non può essere sostituita dalle parole, tanto più nella sfera così difficile da separare che siamo soliti chiamare “contenuto”: l’immagine è il suo stesso contenuto, è performante. E di questo si fa carico lo storico e teorico dell’arte Giovanni Careri, docente a Parigi e allo Iuav di Venezia, con il suo ultimo libro dedicato a Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina (Quodlibet. Pagine 294. Euro 28,00).
Con all’attivo importanti saggi sul barocco, osservato tenendo i piedi nello spazio dell’immagine ma anche in quello letterario e critico (il suo libro più recente era la monografia Caravaggio. La fabbrica dello spettatore (Jaca Book, 2019), Careri è uno studioso che cerca di decostruire nel significato e nell’interpretazione i fenomeni artistici considerandoli alla stregua di opere dinamiche, cinetiche, cinematiche. Usa l’iconologia warburghiana e la semiotica, e nel suo ultimo saggio mette in gioco la tecnica del “montaggio” (quasi in senso drammaturgico e cinematografico) – come già in uno studio sulle cappelle barocche di Bernini di trent’anni fa.
La pars destruens e la par construens con cui si presenta all’appuntamento toccano un grande “oggetto storico” che può essere anche, per dirla con Hubert Damisch evocato da Careri, ”oggetto teorico”: più che di metodologia strumentale si sta parlando di una vera e propria méthode, cioè un procedere che diventa a sua volta performativo, o, come avrebbe detto Heidegger, “pensiero pensante”. E a che cosa applica Careri le sue arti d’indagatore degli anfratti iconografici? Le applica allo studio “innovativo” del programma iconografico elaborato nel cuore della Roma papale che sentiva il vento della Riforma alitarle sul collo.
Questo saggio segna il passo e ci offre una quantità di spunti di riflessione su come nell’arco di trent’anni Michelangelo abbia testimoniato e modulato la percezione e l’idea che i cristiani avevano degli ebrei nella storia della salvezza. Siamo di fronte a uno studio talmente denso, eppure nella sua densità estremamente lineare, alla portata del lettore non specialistico (ma certo un po’ aggiornato sulle questioni), che non si può certo riassumerlo in poche righe, anche perché affronta tanti singoli momenti degli affreschi michelangioleschi che solo elencarli tutti non basterebbe lo spazio a disposizione. Ma si può dire qual è il focus sul quale Careri insiste e torna in una infinità di cerchi concentrici: il tema ricorrente e fondamentale è quello degli Antenati, «per sottrarre le loro figure ai loro nomi, che avevano neutralizzato la straordinaria incongruità delle loro posture».
Gli Antenati di Cristo sono gli ebrei e i cristiani sono quelli che s’innestano su quell’albero e dopo aver riconosciuto il Messia vedono i fratelli d’origine come coloro che vivono fermi nella terra di Adamo. Pertanto li immaginano come dediti ad attività quotidiane, esseri "carnali", prostrati e lenti, a differenza del tono eroico che segna invece la volta e gli affreschi eseguiti nel Quattrocento dai pittori coordinati dal Perugino. Il tono è appunto quello di chi ha portato a compimento una sostituzione dove, scrive Careri, il passato ebraico nella storia della salvezza è inteso come praeparatio e praefiguratio. Lattanzio diceva del popolo ebraico: figuram nostram portat.
Opportunamente, Careri sottolinea che «considerare la stessa storia degli ebrei come un annuncio della storia cristiana è una forma di appropriazione, una presa di possesso, della quale soltanto la prospettiva antropologica moderna è in grado di rivelare pienamente la violenza». Ma l’iconografia degli Antenati è pensata come qualcosa di “basso”, umile e ordinario, che li esclude da questa appropriazione, ma in questo modo salva anche visivamente la loro “alterità”.
Questa immagine degli Antenati, proprio per la differenza estetica rispetto alle figure della volta, esclude che possano diventare emblemi cristiani, anzi nella apologetica rappresentano l’immagine di quelli che, vissuti nel tempo nuovo dell’Incarnazione senza convertirvisi, «si ostinano invano nella loro fede obsoleta» e quindi non prefigurano nulla. Ma in realtà, come dimostra con la sua incursione iconologica e storica Careri – «questi uomini vecchi e stanchi e queste donne che allattano, accanto ai corpi pieni di energia dei profeti e delle sibille sulla volta e vicino alle figure possenti degli angeli e degli eletti del Giudizio» – , hanno un rapporto con l’ordine “sparso” che sembra manifestarsi nella parete affrescata da Michelangelo nel 1541 per rappresentare la fine dei tempi, proprio nella dimensione non aulica e più soggettiva, tipica di una modernità in fieri.
Secondo Careri, esiste un fil rouge fra quelle “inerti famiglie” del passato ebraico e il movimento messianico che si compie nel Giudizio. Se gli Antenati furono una delle fonti dell’antigiudaismo nella Roma di Giulio II, nondimeno la loro apparenza talvolta melanconica, la dimensione quotidiana, dedita alle cose comuni, come allattare un figlio, può risultare coerente con quella “carnalità” (Péguy avrebbe detto “terrosità”) che è segno di umanità da riscattare e che viene investita da una diversa antropologia fondata sulle lettere paoline; la stessa che si riscontra poi nella Sistina per la corrispondenza con il dettato salvifico della somiglianza al modello che trasfigura chi si “conforma” al Cristo «primizia di coloro che sono morti». Il suo volto e il suo aspetto folgorante che si ripresenta alla fine dei tempi non è più quello del semita Gesù, con la barba e i capelli lunghi, ma l’Apollo della bellezza divina.
Tuttavia è proprio negli spazi consentiti dal “montaggio” che Careri recupera le prossimità e anche i rimandi “stratificati” sotto l’intera iconografia sistina. Per il suo “disordine” rispetto ai tradizionali banchi del teatro dove «martiri, patriarchi, santi, dottori della Chiesa, papi e vescovi e a volte in posizione più o meno eminente, re e funzionati politici» trovavano posto secondo il loro rango fino alla fine del Quattrocento, Michelangelo venne accusato fortemente di mancanza di decoro. Una polemica che oggi appare spuntata, ovviamente. Egli pensa il Giudizio tenendo conto di ciò che lo precede e di quello che lui stesso ha realizzato trent’anni prima dando a ogni figura un senso preciso; attorno al Cristo glorioso ora dispone gruppi di figure, angeli e eletti, peccatori e dannati, ma tutti, in positivo oppure in negativo, si definiscono in conformità al modello, il fulcro della storia che torna dal cono abissale e splendente che gli fa da mandorla luminosa (una forma che viene dalla tradizione medioevale).
Careri dedica tutta la prima parte del suo saggio a illustrare il Cristo-Apollo che Michelangelo dipinge: bello, glabro, col braccio destro alzato a sancire la condanna, ma quello sinistro piegato che sembra anche suggerire clemenza (terribilità vasariana contro sistema aperto proposto da Condivi, che scrisse sotto il controllo di Michelangelo). Quel Cristo dall’anatomia classica, con la madre accanto che pare quasi proteggersi da quella immensa energia, è il modello di una “conformazione” che in Paolo significa la trasfigurazione in una nuova imago, a cui i cristiani devono rendersi simili nell’aspetto, indossando quell’immagine come il nuovo abito che li rende partecipi del suo corpo glorioso.
Se la Sistina è «una grande fabbrica della storia cristiana», il Giudizio è l’immagine che attesta una «euristica del montaggio», cioè un nuovo modo di esprimere ciò che fino a quel momento aveva seguito «i principi dell’istoria esposti da Leon Battista Alberti», senza accorgersi poi che già il vento riformatore stava soffiando sulla cristianità. Il Giudizio supera il modello ben ordinato dell’istoria e dà forma a «una costellazione di azioni colte nell’atto di svolgersi, aperte e incompiute, e un’estrema contrazione dello spazio costruito per stratificazione densa; forme capaci di visualizzare la condizione dell’imminenza della fine del tempo». E Careri sottolinea la doppia implosione storica che il Giudizio produce rispetto sia al ciclo delle storie quattrocentesche e della volta: quella del modello albertiano per l’arte; sia nella lettura della stessa storia all’interno del ciclo. Una lettura che vuole collocare quell’affresco nel dibattito a cui prese parte attraverso un pensiero espresso per immagini.