Nel settembre del 1952 arriva nelle librerie italiane
La condizione operaia di Simone Weil, la prima e la più celebre tra le opere della scrittrice francese, tradotta da Franco Fortini e pubblicata dalle Edizioni di Comunità. Il libro è destinato a suscitare grande interesse in chi si occupa di cultura industriale, anche se non mancano le perplessità, i dissensi, le accuse di strumentalizzazione. Proprio perché si tratta del racconto di un’esperienza ai limiti, la vicenda di questa donna, che negli anni Trenta aveva abbandonato l’insegnamento nei licei per condividere le fatiche di chi lavorava nelle officine meccaniche, si ammanta di sfumature religiose, per non dire mistiche, ed evidenzia un forte carattere sacrificale, su cui ha inciso non poco la morte avvenuta prematuramente a causa degli stenti patiti. Le pagine della Weil, in realtà, sono un inno alla sofferenza dell’uomo, non un programma di partito, indicano la strada per superare le astrazioni intellettuali in nome di un principio di fraternità. E pur se manifestano dubbi sull’efficacia del taylorismo o affermano il valore dell’individuo sul dominio della produzione, non demonizzano mai la civiltà delle macchine, semmai accusano il loro esasperante ruolo in seno alla società capitalista. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se una testimonianza così provocatoria abbia catturato le attenzioni di un industriale a suo modo eretico come Adriano Olivetti, finendo per diventare chiave di paragone per tutti gli scrittori coinvolti nel progetto della sua fabbrica-comunità. Non mi riferisco soltanto a Fortini, che metabolizzò le idee della Weil anche dentro la propria poesia, ma a Paolo Volponi (il suo romanzo a più forte connotazione industriale,
Memoriale del 1962, possiede perfettamente i connotati di una
condition ouvrière) o a Ottiero Ottieri, il meno schierato dal punto di vista politico, eppure il più sensibile verso le questioni morali sollevate dalla filosofa transalpina. Tra l’altro,
La linea gotica (1962) – il diario che raduna riflessioni, idee, progetti relativi al decennio che va dal 1948 al 1958 – allude così in abbondanza all’opera della Weil al punto che il nome di questa donna dallo sguardo miope e spaurito dietro gli occhiali non solo torna più volte ad affacciarsi, ma assurge fra i numi destinati a fare di Ottieri un
écrivain de fabrique. Ce ne dà testimonianza una lettera apparsa nel recente numero di “Autografo”, dove sono radunati gli atti di un convegno tenutosi lo scorso anno a Pavia: «Gentile ingegnere – scrive ad Adriano Olivetti in una corrispondenza inedita del 15 marzo 1953 – è mio profondo desiderio di fare un periodo, sia pure breve, ma a diretto contatto con la vita e la tecnologia dell’officina vera e propria. Ho letto avidamente il libro della Weil: vi ho trovato la soluzione di tanti miei vecchissimi enigmi e segreti». Sappiamo che Ottieri sarebbe stato accontentato e dal suo impiego nel settore delle risorse umane presso gli stabilimenti di Ivrea e di Pozzuoli sarebbero scaturiti due romanzi con al centro figure di operai usciti stritolati dal contatto con la fabbrica: personaggi tristi e stressati, come in
Tempi stretti (1957), o affamati di occupazione e di modernità, come in
Donnarumma all’assalto (1959), il suo indiscusso capolavoro. Ma c’è qualcosa di più profondo, ben oltre i riferimenti testuali, che induce a sospettare potenziali analogie (quasi una discendenza filiale) fra Ottieri e la Weil. Ed è quel sentimento di solidarietà, quel desiderio di osservare dal punto più basso della scala gerarchica officine, macchinari, utensili: un gesto più che simbolico, un progetto di vita che in Weil equivale a rinunciare allo status di chierico per indossare la tuta da operaia e in Ottieri invece assume valore formativo, conduce cioè a un’assunzione di responsabilità e determina il passaggio da una fase più contemplativa a una partecipazione più attiva alla vita civile della nazione. Grazie al libro della Weil, insomma, da appartato e sofisticato cultore dell’esistenza, com’era stato fino a quel momento, Ottieri sarebbe diventato uno scrittore
engagé, esponente certo di una forma di impegno che nulla in comune aveva con gli ideologismi di partito, impostata non tanto sulle traiettorie del realismo, quanto su un rinnovato patto etico tra cultura e tecnologia. Che
La linea gotica sia un diario modellato sulla
Condition ouvrière, infatti, è un’idea destinata a convincere ancora di più nel momento in cui Ottieri passa a occuparsi di cicli produttivi, di automazione. Il problema non riguarda soltanto la parcellizzazione del lavoro alla catena di montaggio: di sicuro una conquista in termini di velocità e di efficienza, ma dai risvolti psicologici disastrosi perché giunge a svuotare di qualità e finalità artigianali il ruolo degli operai, sottrae coscienza unitaria al prodotto da destinare ai mercati, determina alienazione. Riguarda invece il primato dell’individuo sulla tecnica, il rapporto tra schiavitù e libertà che su di essa gioca la sua partita. All’orizzonte sembra profilarsi l’immagine di una fabbrica in cui venga azzerata qualsiasi forma di potere che non sia – scrive Simone Weil – «autorità “dell’uomo sulla cosa” e non “dell’uomo sull’uomo”». È impossibile non parlare di utopia di fronte a un’ipotesi così radicale. Tuttavia non sembra esserci alternativa al senso di disperazione e di nullità che si coglie negli occhi degli operai e che sfocia in un dolore muto, inespresso, perfino fatalistico. Ottieri sapeva bene che la soluzione auspicata dalla Weil sarebbe rimasta un progetto irrealizzabile, constatava l’orrore del ritmo e la monotonia dei gesti, calcolava i “tempi stretti”, appunto, da cui i personaggi usciti dai suoi libri non si salvano se non regredendo in una specie di sonno incosciente, dove tutto avviene senza chiedersi troppi perché, o maturando l’idea di una fuga verso un improbabile ritorno allo stato di natura. Il che certifica il fallimento della condizione moderna, la sconfitta di un’epoca e dei suoi linguaggi.