Tutta una questione di diritti. Il futuro della musica italiana, soprattutto quella giovane e d’autore, è legata anche all’equo compenso del prodotto culturale. Perché, paradossalmente, in un mondo dove sull’onda del boom delle tecnologie si ascolta sempre più musica, chi la scrive guadagna sempre meno. Un problema a livello globale che, in un mercato marginale per le multinazionali come quello italiano, rischia di far scomparire la figura soprattutto dell’autore. E Sanremo, lente d’ingrandimento di ogni contraddizione della società italiana dello spettacolo e non, diventa palcoscenico di un duello annunciato a suon di carte bollate tra la Siae (So- cietà italiana autori e editori), che ha il monopolio in Italia della riscossione del diritto d’autore, e la giovane e agguerritissima Soundreef , piccola start up italiana nata in Gran Bretagna, che rivendica la fine del monopolio a favore di un libero mercato, ingaggiando, con lauti anticipi sui diritti, star come Fedez e Gigi D’Alessio.
Il braccio di ferro parte da Sanremo. Mentre, come conferma il direttore di Rai 1 Andrea Fabiano, il Festival «si attiene alla legge», ovvero stringe accordi solo con Siae che è Ente pubblico economico con un’esclusiva garantita dall’articolo 180 della legge sul diritto d’autore del 1941, Soundreef rivendica il diritto di raccogliere dalla Rai i diritti d’autore dei suoi affiliati in gara, D’Alessio, Nesli, Tommaso Pini, come cantanti, e Francesca Andrea Dall’Ora, Francesco Tarducci e il maestro Maurizio Fabrizio come autori musicisti. Soundreef fa appello alla direttiva europea sulle società di collecting, Siae rivendica il monopolio di Stato. In mezzo, uno spiraglio normativo in cui chi è più lesto si infila. «Secondo la legge attuale, i diritti d’autore sono raccolti dalla Siae – ha detto Gaetano Blandini, direttore generale –. L’artista può eventualmente riscuoterli direttamente, ma non lo può fare Soundreef».
Si attende entro un mese la nuova normativa, che sarà presto in “Gazzetta Ufficiale” e che, aggiunge Blandini, «conferma in toto l’articolo 180 sull’argomento», che di fatto prevede l’esclusiva alla Siae. Per contro, Davide D’Atri, amministratore delegato di Soundreef, parla di rivoluzione nella gestione dei diritti d’autore e assicura trasparenza, tracciabilità e «diritti d’autore già rendicontati a pochi giorni da un concerto e già pronti per essere pagati». Quel che è evidente che la concorrenza ha portato un monolite come la Siae a svecchiarsi di corsa, dotandosi anch’essa di software che riescono a controllare in tempo reale l’enorme galassia di emissioni musicali via web, radio, live e concerti. Siae ha una struttura organizzativa e un solido fatturato da seicento milioni di euro che le permettono una potenza di fuoco capillare, e lo stesso D’Atri ammette: «Sarebbe più produttivo un dialogo e cooperare ».
D’altronde il mercato dei diritti, che solo in Europa vale sette miliardi di euro, fa parecchio gola. Su un punto sono tutti d’accordo. A fare la parte del leone sono i colossi del web, da Spotify a Google Music, che macinano musica ma pagano pochissimo gli stessi “esattori” (circa il 10% del valore di un brano) sul quale va applicata la commissione dell’intermediario che va dal 3 al 25%. Già, ma agli autori, specie ai giovani meno affermati, cosa arriva in tasca? Il vero problema è il « value gap », come dice Paolo Franchini presidente degli editori Fem, ovvero la differenza tra quanto guadagna il web e quanto gli autori. Su quello si occorrerebbe fare fronte comune.
«Non c’è più il mercato di sostegno per la musica di qualità – aggiunge Piero Cesanelli, direttore artistico di Musicultura di Macerata, prestigiosa manifestazione per il lancio di giovani cantautori creata nel 1990 dal cantautore Fabrizio De André e il poeta Giorgio Caproni –. Le case discografiche e i direttori artistici in pratica non esistono più, dato che non si vendono più dischi, non c’è interesse per far crescere gli artisti giovani e si punta solo su alcuni artisti affermati. Ma una volta estinti anche questi?».