A distanza di settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale si può chiedere se la visione personalistico- comunitaria sia ancora attiva e ispirante, o se invece la teoria politica si sia concentrata così ampiamente sulle libertà di scelta da perdere di vista l’importanza dei legami e delle relazioni, facendo prevalere altre visioni e concezioni dell’uomo, meno inclinate al senso della solidarietà e della cooperazione. Sta mutando, e non in meglio, l’immagine dell’uomo che viene trasmessa a piene mani nella società: essa si struttura come nuova antropologia secolare che trasmette un resoconto riduzionistico dell’uomo, e un assunto parzialmente relativistico sulle norme morali e sulla condizione della coscienza morale. A questo si accompagna in Occidente una versione dei diritti umani in cui prevalgono quasi solo i diritti di libertà del singolo e una loro interpretazione libertaria. La consapevolezza su questo fenomeno di particolare rilievo non è tuttora diffusa, ma da diversi anni crescono le voci ammonitrici. Riferendosi al dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, l’allora cardinal Ratzinger a Subiaco osservò che la cultura illuministica radicale intende diventare costitutiva per l’identità europea: «Accanto ad essa possono coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordinino ad essa. Questa cultura illuminista è definita dai diritti di libertà… Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile alla libertà». La frase offre un’apertura su un problema enorme, che più volte mi è capitato di formulare: i diritti umani sono solo diritti di libertà? La risposta non può che essere recisamente negativa, anche alla luce del fatto che la rivendicazione di diritti senza misura conduce a un loro illimitato conflitto. Dinanzi al contesto culurale delineato emerge come tema urgente l’approfondimento del nesso tra diritto e dovere. Per secoli e secoli il linguaggio dei diritti era sostanzialmente assente e quello dei doveri dominante, per cui l’eccellenza e la dignità dell’uomo erano collegate alla conoscenza dei doveri. All’epoca dell’Illuminismo Kant pose con ragione l’accento sulla correlazione tra doveri e diritti: «Perché la dottrina dei costumi (la morale) è chiamata abitualmente (specialmente da Cicerone) la dottrina dei doveri, e non anche quella dei diritti, tenuto conto che in verità gli uni si riferiscono agli altri? ».
Oggi è necessario formulare la domanda di Kant, invertendone i termini: «perché la morale e il diritto vigente sono chiamati dottrina dei diritti e non anche dei doveri?». Il nesso fra diritto e dovere/obbligazione. Il punto di cerniera tra diritti e doveri è rappresentato dalla legge morale naturale. Questa, mentre prescrive doveri, riconosce anche i diritti legati alla natura stessa dell’uomo: «La vera filosofia dei diritti della persona umana si fonda dunque sull’idea della legge naturale. La stessa legge naturale che ci prescrive i nostri più fondamentali doveri, e in virtù della quale ogni legge obbliga, è essa pure quella che ci assegna i nostri diritti fondamentali». Occorre richiamare l’attenzione su questa frase che inserisce un punto di svolta nella modernità e che, correggendo la posizione moderna e quella antica, le porta a sintesi. Le teorie moderne sul nesso diritto-dovere sono assai più teorie dei diritti che dell’obbligazione; e reciprocamente le dottrine antiche e medievali valgono come espressione della legge e dell’obbligazione, e meno dei diritti. Di conseguenza sotto lo stesso nome generale di legge naturale vengono ricomprese dai medievali e dai moderni prospettive lontane, che Maritain cerca di ricondurre a unità offrendo una determinazione più compiuta del radicarsi di diritti e doveri nella legge naturale. Un modo problematico di intendere i diritti umani in Occidente si fonda sull’idea che essi si riassumano nel divieto di interferire nella sfera altrui, e che di conseguenza in loro si esprima l’impossibilità di chiedere ad altri qualcosa che questi possono dare solo nella forma dello scambio: io appartengo solo a me stesso; io sono mio, io sono irrelato e non instauro rapporti con gli altri se non contrattualmente. Frequentemente si punta sul singolo inteso senza affetti, senza inserimento in una reale comunità, su un’ipertrofia del sé da cui fluisce una competizione fra soggetti separati intenti a promuovere se stessi. Le pratiche e talvolta le concezioni dei diritti attualmente prevalenti in Occidente pongono il diritto sopra l’obbligazione e il dovere. Ora se intendiamo garantire l’avvenire dei diritti umani, è saggio seguire un altro approccio, imperniato sull’idea di obbligo verso l’altro e sull’anteriorità dell’obbligo rispetto al diritto. Si tratta di ricercare un equilibrio fra libertà e responsabi-lità, senza la quale l’appello indifferenziato ai diritti individuali può generare abusi e condurre all’anarchia. Non vorrei quindi privilegiare il linguaggio dei doveri su quello dei diritti e neppure il viceversa. Entrambi dovrebbero procedere appaiati facendo volta a volta emergere il lato più scoperto secondo i contesti e le situazioni storiche. Riterrei indubbio che in Occidente debbano assumere grande slancio il tema della solidarietà e il correlativo dovere nella prassi comune e nelle leggi. Esiste un dovere morale di solidarietà che va urgentemente recuperato e senza il quale il senso stesso di molti diritti si degrada.