domenica 12 febbraio 2023
Sia da politico che da sacerdote e, ancor prima, da partigiano fu su questo tema particolarmente intransigente al punto di entrare in conflitto con De Gasperi riguardo all’adesione al Patto atlantico
Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira nel 1956

Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira nel 1956 - archivio

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Dossetti e la pace, un tormento interiore costante. Quasi un’ossessione. Che lo rese “scomodo” persino dopo aver indossato la tonaca. Il costituente, il politico, il religioso: aiuta a mettere ordine nella sua complessa biografia Giuseppe Dossetti. La politica come missione (pagine 272, euro 27) appena uscito per Carocci in occasione dei 110 anni dalla nascita, che ricorrono domani. Dirigente di Azione cattolica, partigiano e presidente del Cln di Reggio Emilia, entrato in semiclandestinità nel gennaio 1945 insieme al fratello Ermanno per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi e delle brigate nere fasciste, «non autorizzò mai azioni che comportassero l’eventuale uccisione di un’altra persona, per quanto nemico» ricostruisce Luigi Giorgi, coordinatore delle attività culturali dell’istituto Sturzo e autore del volume. Dossetti, al pari di Lazzati, «cercò di dividere la propria strada da quella della Dc, in quanto riteneva, con ogni probabilità, che il periodo costituente avesse di fatto esaurito la sua partecipazione politica. Così non sarà. Alla “chiamata” delle elezioni epocali del 18 aprile 1948 non potrà sottrarsi. E alla prima legislatura il primo vero motivo di attrito con Alcide De Gasperi si ebbe sull’adesione al Patto atlantico. Arrivata al Viminale, dov’era allora la sede della presidenza del Consiglio, la notizia che da Washington era partito l’invito all’Italia («Non ho mai visto De Gasperi così felice », riferì Paolo Emilio Taviani) si avviò un confronto molto intenso nel Consiglio nazionale della Dc. Dossetti scrisse una lettera al presidente del Consiglio in cui, accanto a calorose attestazioni di amicizia, non mancava di contestare, scrive Giorgi, «di aver portato alla valutazione del partito decisioni già prese, alludendo anche all’influenza che sullo statista trentino potevano avere “tecnici” della politica estera per di più appartenenti al mondo dell’Italia liberale». Una lettera che Giulio Andreotti definì, con una punta di ironia «molto complessa e quasi auto-psicoanalitica». Alla fine non mancò il voto finale favorevole di Dossetti, anche per non dare argomenti a chi l’accusava di offrire una sponda ai veti comunisti. Convinto di aver combattuto una buona battaglia e, non essendo in discussione nelle sue intenzioni la collocazione occidentale, si accontentò del dibattito scaturito, che non considerò certamente chiuso. Ne parlò anche con monsignor Angelo Dell’Acqua sostituto della Segreteria di Stato vaticana, con il quale aveva una lunga dimestichezza sin dalla Costituente, maturata nell’ambito della discussione sul recepimento dei Patti Lateranensi. Dietro alla natura asseritamente “difensiva” del patto, Dossetti, come riferì lo stesso Dell’Acqua, espresse la propria contrarietà a un patto che era di natura militare. «Propugnava una neutralità non equidistante, ma benevola verso gli occidentali». E a fronte delle preoccupazioni di De Gasperi, sostenne con l’interlocutore vaticano che «ciò non avrebbe portato l’amministrazione americana a sospendere gli aiuti all’Italia». Il travaglio della Chiesa e quello personale di Dossetti, procedono di pari passo. Ma, annota Giorgi, «nelle durezze dello scontro politico, e di una diversa visione di sistema e strutture, non voleva lasciare strascichi di risentimento», volendo solo «andare incontro alla sua vera vocazione». Scrive ai colleghi della sua ultima avventura politica, i consiglieri comunali di Bologna, una lettera molto delicata a spiegare la sua scelta. Con il “rivale” De Gasperi, andò anche oltre, con una lettera che fece pervenire alla famiglia. Scrisse alla moglie, Francesca De Gasperi, il 31 dicembre 1958, essendo lo statista trentino scomparso quattro anni prima: «Gentile signora, il giorno dell’Epifania, a Dio piacendo, sarò ordinato sacerdote. Il Signore Misericordioso mi porta così là dove da sempre mi voleva. Penso che se il Presidente fosse con noi goderebbe, vedendo così chiarita la mia strada». All'ordinazione c’era però - fra gli altri - Giorgio La Pira. Qualche giorno dopo, il 25 gennaio 1959, presso la basilica di San Paolo fuori le mura Giovanni XXIII annunciò la decisione di convocare un nuovo Concilio. In quegli anni Dossetti, che aveva scelto la purezza nell’imitazione di Cristo, si andò convincendo di aver fatto la cosa giusta e rafforzò il suo legame spirituale con l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, di cui era stato consigliere e che nel gennaio 1967 lo chiamò al suo fianco in qualità di pro-vicario: per molti fu questa una chiara indicazione per la sua successione. Lercaro, che aveva compiuto 75 anni, aveva offerto le sue dimissioni che però erano state respinte, manteneva un ruolo importante nell’attuazione della riforma conciliare: presidente del Consilium per l’attuazione della riforma liturgica. Si entra nel Sessantotto, e Dossetti vede, nella crudele guerra del Vietnam, la conferma che l’adesione acritica all’alleanza con gli Stati Uniti espone l’Italia e, nel loro rispettivo ambito, anche la Dc e la stessa Chiesa, al rischio di complicità inaccettabili. Il nuovo pontefice Paolo VI, pur sentendo quel conflitto come «la guerra che più lo sollecitava sul piano spirituale e umano », scrive Giorgi, raccomandò a Lercaro di non assumere posizioni pubbliche sull’argomento, nella preoccupazione di non aprire uno scontro con i vescovi americani. Ma la celebre omelia del primo gennaio 1968 contravvenne a quell’impegno preso: «La Chiesa non può essere neutrale, di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia; cioè il parlare in nome di Dio, la parola di Dio». E deve «secondo le parole di Isaia riprese dall’Evangelista san Matteo (12,18) – “annunziare il giudizio alle nazioni”». Questo il passaggio più pesante del cardinale, attribuito, nella vulgata generale, all’ispirazione dossettiana. Per Lercaro la mancata riconferma che ne scaturì, fu vista come una rimozione, e tale la considerò Dossetti, che scelse di lasciare l’incarico di pro-vicario, come peraltro aveva già deciso , e di tornare a Gerusalemme. Il tema però tornò prorompente esattamente due anni dopo, il primo gennaio del 1970, quando, nell’ambito dei commenti biblici che teneva ciclicamente a Monteveglio, arrivò a criticare la scelta di Paolo VI di incontrare il presidente americano Nixon, nell’abito di una visita in Italia al centro di dure contestazioni: «Questo pone dei problemi, suscita degli interrogativi, che sono interrogativi di coscienza». Nel 1990, in occasione della prima guerra del Golfo, intervenne preoccupato per l’innesco di una possibile guerra di religione: «Di fronte a una minaccia che investe i princìpi di convivenza pacifica dell’intero sistema internazionale, le nazioni debbono dimostrare di voler mettere la forza al servizio del diritto ». E anche a Gerusalemme il tema della pace fu il suo cruccio costante. Colpito dal massacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila in Libano, nel settembre 1982, restò scandalizzato dal fatto che la responsabilità fosse attribuibile alle falangi cristiano-maronite. «Ho scelto di vivere gli ultimi anni della mia vita in questa terra perché è la terra della Rivelazione di Dio e dell’Incarnazione del Figlio di Dio, Gesù: in nome del Dio unico e in nome di Gesù e del suo vangelo debbo dire che tutto in me si ribella al massacro di Beirut e debbo dichiarare con forza “Non è lecito in assoluto e per nessun motivo”».

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