In Italia, da tre anni a questa parte c’è solo una squadra, la
Juventus. Quello che non gli riesce in Europa – e questo è male - la squadra di Antonio Conte lo realizza e in scioltezza nel nostro campionato, che non sarà più il più bello e difficile del mondo come un ventennio fa, ma neppure inferiore a quello francese o spagnolo (quello tedesco e inglese invece è assodato che stanno un gradino sopra). Due scudetti di fila e il terzo praticamente in tasca, perchè nel match più difficile della stagione – almeno alla vigilia -, la sfida contro la Roma imbattuta del sergente Garcia, è venuta fuori tutta la superba concretezza dei campioni d’Italia. La Juve cala il tris e si porta a più 8 dai giallorossi assolutamente ridimensionati. «Ma noi non vogliamo mica vincere lo scudetto…», biascica Garcia nel post-partita in un franco-romano remissivo. Un annuncio che farà sicuramente “piacere” ai romanisti che però, tolta la maschera che acceca ogni tifoso, si saranno resi conto del divario abissale che c’è tra la superba Juventus e la loro squadra. La Roma del resto, finora ha fatto la stupida solo una sera, unica sconfitta allo Juventus Stadium, ma tanto è bastato, forse, per desistere dalla corsa-scudetto. A quella, dicono gli espertoni, ora ci penserà il Napoli di Don Rafa Benitez, che in estate è partito per recitare il ruolo ufficiale dell’anti-Juve, ma finora il massimo che gli è riuscito è stato perdere a Torino - con lo stesso punteggio della Roma, 3-0 - e girare alla diciottesima giornata con 10 punti di ritardo dalla superbissima capolista.
Non era affatto superbo, se non nell’eleganza che mostrava in campo, il grande
Eusebio. Tutto il Portogallo ora piange la sua stella più luminosa, prima dell’avvento di Cristiano Ronaldo. Eusebio è stato il “Pelè europeo” (anche se le sue origini erano africane, era nato a Maputo in Mozambico), il primo Pallone d’Oro di colore. Una carriera da incorniciare, in cui ha realizzato una montagna di gol , 733 reti, e per tre lustri (dal 1961 al ’75) ha trascinato il suo club, il Benfica, rendendolo uno dei più prestigiosi al mondo. Lo chiamavano la “pantera nera”, ed infatti è stato un animale raro nel circo del pallone, sopratutto per la grande umiltà che ha saputo mantenere fino alla fine, pur essendo una leggenda vivente per il suo popolo. L’umiltà di chi ringraziava Dio per avergli dato il talento e con quello si era conquistato il rispetto e l’amore incondizionato del mondo del calcio che considerava una grande famiglia, la sua famiglia. Negli ultimi anni però era triste come un cantante di fado e ripeteva che questo non era più il suo calcio, perchè ormai strangolato dall’eccesso di denaro e dalla sovraesposizione mediatica. Due demoni che secondo Eusebio hanno questo sport un inferno superbo e dorato, dal quale, a 71 anni, saluta per sempre e con infinità umiltà si accomoda lassù, nell’Eden degli eterni campioni.