Un giovane don Pipe ai Giochi
Partecipare a tre Olimpiadi non è da tutti. Don Luis Felipe Areta, detto “don Pipe”, ci riuscì negli anni ’60. All’epoca era lo spagnolo più forte nel salto in lungo e nel salto triplo, oggi ha 74 anni, vive a Pamplona «e no, non salto più», tiene a precisare. Appena maggiorenne, invece, si ritrovò catapultato ai giochi Olimpici di Roma. Era il 1960, e da pochi mesi era numerario dell’Opus Dei, dove fece ingresso «tre giorni dopo aver realizzato il record spagnolo nel triplo». In Italia si allenò assieme a Giuseppe Gentile, che proprio a Roma, e sempre nel lungo, migliorò due volte il record del mondo ma in finale fu “solo” bronzo. «Un grande amico, ci sentiamo ancora oggi - racconta don Luis Felipe -. Io ero un po’ timido, circondato da campioni. Nel campo di allenamento mi trovavo assieme agli atleti americani e sovietici, era un’emozione». Per i risultati, occorse aspettare Tokyo ’64. C’era la pioggia, il giorno delle qualifiche, e Pipe si ritrovò subito a rischio eliminazione: «Finiti i miei tentativi, mi misi a sperare che nessun altro potesse superarmi. Sì, quasi pregavo - sorride il sacerdote -. L’ultimo fu un ghanese con un ottimo personale di 8 metri e 14. Però pioveva molto e non riuscì a fare meglio di me». Arrivò così alla finale, da fanalino di coda. Staccò un 7.30 che, in quelle condizioni, valse un sesto posto da far saltare, sì, ma stavolta di gioia.
Qualche mese prima il giovane atleta di San Sebastián aveva avuto uno di quegli incontri con Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, che sarebbe rimasto per sempre nella memoria: «Mi disse: “Ti stai allenando bene per le Olimpiadi, però preparati per il salto finale che farai... tra novant’anni. Ci saranno cose che ti riusciranno bene, altre meno, però preparati al salto”».
In un’altra occasione Escrivá venne chiamato di corsa da amici della “Obra” a guardare la tv: trasmettevano un meeting di atletica da Milano, e “Pipe” stava per correre i 100 metri: «Partecipavo senza troppe pretese, non era la mia specialità - spiega -. Avevo appena vinto la prova del salto in lungo. Lì invece sapevo di non avere chance e infatti, dopo essere stato in testa i primi 50 metri, venni superato. Tornato a Madrid, Escrivá mi raccontò del suo dispiacere per me, per quello che avevo potuto provare vedendomi sorpassato dagli altri. Era attento anche a questi particolari».
Dal punto di vista sportivo, la delusione maggiore arrivò alle Olimpiadi di Città del Messico nel ’68: finale del salto triplo raggiunta, nonostante le qualifiche durissime, ma non disputata «perché durante il riscaldamento sentii male alla caviglia destra. Vidi gli altri saltare, tutto qui». Tornarono alla mente le parole sempre del fondatore della Obra: «Quando sei teso prima di una gara, perché sai che stai per giocarti tutto, pensa che Dio ti sta sorridendo. Questo non ti deconcentra - gli disse Escrivá -. Se salirai sul podio, glielo offrirai. Se andrà male, pensa che la medaglia te la stia dando direttamente Lui». Il sorriso di Dio non può che essere contagioso; prova ne è che il giovane spagnolo, poi laureato in filosofia e giornalismo e ordinato sacerdote nel 1980, non ha perso il buonumore: «Gli allenamenti non mi hanno tolto nulla, ho avuto pure il tempo per incidere un disco con quattro canzoni, scritte da me. Ma quello che è fondamentale è tener a Dios, portare Gesù Cristo con noi e vivere con questa speranza. Credo che l’allegria dello spirito sportivo sia molto d’aiuto, soprattutto con riferimento a quel “salto finale”. Confidando in una rincorsa molto lunga, magari. E in un atterraggio, perché no, infinitamente soffice».