venerdì 26 novembre 2021
Una rassegna irripetibile con un centinaio di dipinti. Al di là del trompe l'oeil e dell'ingrandimento, il soggetto è un pretesto per una pittura di linee e superfici. Quasi come un pittore gotico
Veduta della mostra “Domenico Gnoli” a Milano

Veduta della mostra “Domenico Gnoli” a Milano - Roberto Marossi / Courtesy Fondazione Prada

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«Ora il mondo non è né pieno di significati né assurdo. Semplicemente è. Al posto di questo universo di “significati” (psicologici, sociali, funzionali), bisognerebbe cercare di costruire un mondo più solido, più immediato. In modo che sarà grazie alla loro presenza che gli oggetti e le azioni si imporranno, e in modo che questa presenza continui da quel momento in poi a imporsi al di là di qualsiasi teoria della spiegazione che potesse tentare di includerli in ogni sorta di sentimentale, sociologico, freudiano, metafisico, o qualsiasi altro sistema di riferimenti». Viene da chiedersi se le parole di Alain Robbe- Grillet, il teorico del Nouveau roman, possano essere la guida ideale alla mostra che Fondazione Prada dedica a Domenico Gnoli sulla base di un progetto di Germano Celant.

Mostra magnetica, formidabile, forse anche irripetibile per quantità e qualità delle opere (i soli dipinti sono un’ottantina), per la completezza – il piano inferiore si muove per temi mentre il superiore è interamente dedicato alla sua attività di illustratore, costumista e scenografo tra Londra e New York –, per il catalogo che ricostruisce nel dettaglio trame e intrecci di una carriera folgorante, troncata all’improvviso da un cancro a 36 anni, nel 1970.

Una carriera, per altro, giocata tutta da outsider. Gnoli non solo è rimasto al di fuori delle correnti (e anche dell’Italia), ma è anche inassimilabile: gli ingrandimenti degli oggetti quotidiani lo avvicinano alla pop art, ma è assente il tema della cultura di massa; la cura maniacale del dettaglio e della luce (la sua pittura resta salda anche a uno sguardo ravvicinato) lo farebbe realista se non fosse per la vistosa irrealtà dell’assieme. Rigore geometrico e stilizzazione naif. Oggettività e astrazione... Gnoli tiene tutto assieme, e quando l’occhio propende per una parte, eccolo riportare subito in primo piano l’altra.

Certo, è un pittore a suo modo antico. La pasta della pittura, acrilico mescolato alla sabbia, rallenta la luce, chiarissima anche sul nero profondo, che esalta le geometrie e i volumi: è la memoria di Piero, portata nel Novecento. Ma allo stesso tempo Gnoli è un pittore “gotico”: il protagonismo dei tessuti, le fantasie degli stampati, la ricchezza dei ricami, gli intrecci degli operati e le armature a spina, o la linearità dei capelli e delle trecce, e anche la stessa matericità della pittura che rievoca la superficie di punzoni e di pastiglie.

Il punto forse è questo. Gnoli è un pittore di superfici. Nonostante i volumi vistosi, Gnoli dipinge estensioni: stoffe, muri, smalti, carte da parati, il linoleum degli ascensori, capelli. Superfici piane, le cui curve, onde e pieghe alterano pattern geometrici regolari: spingendo il tema (classico) della mimesi fino al trompe l’oeil e insieme negandolo, ci soggioga all’ipnosi della reiterazione.

L’impianto curatoriale, e in particolare il testo di Salvatore Settis, intende valorizzare la natura narrativa dell’opera di Gnoli. Ma se nella grafica questa appare quasi un’ovvietà, nei dipinti si fatica ad apprezzarla. Gli oggetti, spesso tagliati da close up radicali, non sembrano davvero un invito a proseguire il racconto al di fuori dei margini. I dipinti sono “ottusi”: sono quello che sono. Forti gli echi di De Chirico: ma senza metafisica. In Gnoli non c’è mistero né enigma (e neppure ironia). Il quadro è ciò che si vede. Anche per questo è perfettamente leggibile da metri come da centimetri di distanza. Assai poco painterly, per usare la precisione del termine inglese. Ed è questo che lo rende perfettamente contemporaneo al suo tempo.

Potrà apparire opinione eterodossa, ma non sembra esserci reale differenza tra un dipinto di Gnoli e uno di Frank Stella. I quadri con i gessati o le cravatte lo suggeriscono in maniera più evidente. La presenza di un soggetto non deve trarre in inganno, è come il dito e la luna: sia Gnoli che Stella dipingono righe e colore, con la ripetizione a costituire la struttura ritmica. Gnoli rispetto a Stella resta anfibio, è come se non riuscisse ad abbandonare la sua “natura” europea. Ma in ultima analisi (anche se forse Gnoli così non l’avrebbe detto) per lui sembra valere quanto dice Stella della propria pittura: “una superficie piana con strati di vernice: niente di più”. Però, che superficie.

Milano, Fondazione Prada
Domenico Gnoli
Fino al 22 febbraio

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