Una rappresentazione del dolore e dell’alienazione di fronte al male in una fotografia di Misha Gordin
Per i lettori che lo hanno incontrato al suo primo apparire, il diario della malattia di Giovanni Cenacchi si è subito imposto come un classico: un piccolo, impegnativo e indefinibile classico, nel quale le parole del Giobbe biblico tornano a essere pronunciate da un uomo del nostro tempo, con un atteggiamento a tratti ironico e a tratti disincantato, ma non per questo disposto a smettere di protestare, implorare, cercare. Ora riproposto da Quodlibet con una prefazione di Emanuele Trevi e con l’intervento dell’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi, anticipato sotto, Cammino tra le ombre (pagine 128, euro 14,00) era stato pubblicato inizialmente da Mondadori nel 2008. (A.Zac.)
«Dio, ti chiamo dall’abisso», scrive Giovanni Cenacchi. De profundis. Tutto il suo diario è come un lungo salmo, con la stessa intensità, angoscia, abbandono, rabbia, disperazione, gioia del salmista, che grida la propria sofferenza e tutta la sua angoscia di fronte a un Dio che non sente vicino, da cui vorrebbe, esige risposte ma che appare drammaticamente troppo lontano. Giovanni cerca Dio, ne ha bisogno e già in questo lo trova. La sete vuol dire che c’è l’acqua. Il padre spirituale di Madre Teresa, infatti, scriveva a proposito delle terribili notti di buio che ella sperimentò: «Si comprende che l’oscurità era, in realtà, il legame misterioso che la univa a Gesù, il contatto dell’intimo, ardente desiderio di Dio. Una tale brama è possibile solo attraverso la presenza nascosta di Dio stesso. Non possiamo desiderare qualcosa che non è intimamente vicino a noi. La sete è qualcosa di più dell’assenza dell’acqua. Non viene provata dalle pietre, ma solo dagli esseri viventi che da essa dipendono. Chi ne sa di più dell’acqua viva, la persona che ogni giorno apre distrattamente il rubinetto o il viaggiatore nel deserto torturato dalla sete in cerca di una sorgente?» (padre Joseph Neuner su Madre Teresa di Calcutta). Anche Giovanni ha sperimentato, nelle tante, dolorose, troppe notti di oscurità la ricerca affannata di Dio.
Giovanni costringe tutti a guardare in faccia il male, a non accettarlo, perché non si può accettare, mai. Ci insegna a combatterlo. Non accetta nessun pat- teggiamento con il male. Non fa finta, non cerca risposte banali, ne sente e ne esprime la rabbia per la sua forza subdola, descrive l’abisso che questo apre nel cuore e nel corpo. Quanto facilmente lo evitiamo, lo edulcoriamo, lo nascondiamo e in fondo crediamo di potere stare bene solo riuscendo a evitarlo! Giovanni descrive tutta la brutale cattiveria del male e aiuta a renderlo inaccettabile quale esso è sempre. Non scappa, non può scappare. Non gli interessano mezze soluzioni, non si stordisce affatto con inutili inganni. Vuole la soluzione: la guarigione, uscire dal buio in cui è precipitato. È un affamato di verità e ci interroga dove la cerchiamo, se la cerchiamo, se ci accontentiamo di risposte finte oppure aspiriamo a qualcosa di vero. Il suo dolore ci svela come in realtà tutti siamo affamati di verità. Ha la forza di chiamare le cose con il proprio nome. «Vivo nella mia morte e null’altro mi è permesso ». Con insistenza cerca una risposta da un Dio che sente averlo abbandonato. È stata proprio questa una delle domande di Gesù dalla croce. «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? » Dio appare sempre troppo lontano nel terribile incontro con la sofferenza mentre questa ci soffoca con la sua forza che irride le nostre difese e umilia la nostra fiducia. Giovanni commenta amaramente: «Non ci sono risposte soltanto scelte».
Cerca tantissimo Dio anche arrabbiandosi con Lui. «Perché hai bisogno che noi crediamo? Perché non puoi raccontarci la verità? A che ti serve nasconderti? Non sarebbe più felice il mondo nella certezza di te?», interroga Dio quasi sfidandolo. Pone drammaticamente una domanda cara anche al cardinale Martini e che timidamente o drammaticamente in realtà ci poniamo tutti: perché Gesù non ha cancellato la morte con tutto il suo «osceno gioco», come cantava quel poeta? «Ho detto qualche volta che per molti anni mi sono lamentato così col Signore: tu hai creato il mondo, ci hai fatto doni bellissimi, sei morto per noi ma non hai abolito la morte. Che cosa ti costava eliminarla? Bastava che tu dicessi: muoio io per tutti; e tutti sarebbero entrati nell’aldilà su una passerella d’oro. La morte, in realtà, è molto necessaria, proprio perché ci permette di realizzare quell’abbandono di fede che è veramente assoluto, totale, senza rete, senza nessuna uscita di sicurezza. Se non ci fosse la morte non saremmo mai costretti a compiere un atto di completa consegna di noi stessi a Dio; con la morte siamo obbligati a fidarci incondizionalmente di Lui». «Svelati Signore, te ne prego, dacci il mistero», esige Giovanni. Il suo è un itinerario. Infatti Giovanni cambia alcune sue considerazioni, inoltrandosi nel tunnel della malattia. Poco alla volta, faticosamente, non ha più paura della morte ma del morire. A volte usa la preziosa arma dell’ironia, come quando considera «il lusso di perdere tempo quando non c’è più tempo! » o «vi manderò un fax».
La sua vera consolazione è Viola, i suoi cari e gli amici, che lo riempiono di gratitudine, da «stare quasi male». «Ora non chiedo altro che la giustizia di morire in un giorno così» aggiunge una sera al termine di un giorno vissuto in loro compagnia. È vero, la forza viene dall’amore che lasciamo negli altri e che cerca disperatamente dialogando con Dio. «Ora mi resta solo di confrontarmi con Dio». È un confronto di amore. È quella risposta altrimenti nascosta che solo l’amore può farci vivere. In pace.