martedì 17 febbraio 2015
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Molière è uno dei grandi autori misteriosi del teatro. Sognava di scrivere tragedie, in versi. Ma la situazione del teatro, nella Francia del re suo fedele protettore, esigeva commedie. Poesia e tragedia erano incompatibili con quel tempo, quella società parigina raffinata, ironica, un po’ frivola. Il drammaturgo, figlio del tappezziere del sovrano, dopo alcuni tentativi tragici comprese che doveva cimentarsi con la commedia, genere più consentaneo al pubblico potenziale, e operò un piccolo prodigio. L’avaro, Il malato immaginario, Il borghese gentiluomo sono in realtà opere tragiche: personaggi soli, abbandonati, in preda a deliri premoderni (depressione, avidità, ostentazione, status sociale), incapaci di vivere una tragedia che pure esiste. La Londra elisabettiana consentiva i drammi di Amleto, le magie di Prospero, spodestato duca di Milano in un’isola caraibica… Quei temi erano troppo forti, tragici. Allora il drammaturgo creò un genere di commedia che, anticipando una certa modernità, trasferiva la dimensione del tragico nella solitudine del personaggio, a cui il mondo era sfuggito di mano, nella sua tragedia e nel suo agonismo. Con Molière nasce, come con  Goldoni, il grande teatro borghese che non accoglie più la tragedia, ma la trasferisce nel dramma interiore, in un rovello non più universalmente recitante, ma ossessivamente presente in forme attenuate. Il malato immaginario è un uomo che teme ossessivamente la contaminazione, il morbo, e cerca di proteggersi temendo tutto quanto è potenzialmente pericoloso, infettante.La parola teatro e la parola teoria sono, nell’origine greca, imparentate. Entrambe inscindibili dal concetto di visione. Pochi drammaturghi sono visionari come Molière: il suo Avaro, il suo Malato, il suo Borghese, non hanno alcuna parentela con i grossolani personaggi della commedia, da Aristofane a Plauto. Sono della stessa stoffa dei sogni, come quelli di Shakespeare. Ma mentre le commedie di Shakespeare sono fiabe, sogni parlanti anticipanti a livello stratosferico il migliore Walt Disney, le commedie di Molière non hanno nulla a che vedere con quelle oniriche del Bardo. Piuttosto si legano alle sue tragedie. La realtà del pubblico, del teatro, lucidamente espressa dal sovrano suo protettore, lo costrinse a farsi autore di tragedie mascherate da commedie. Con esiti straordinari. Durissima, per il regista e il protagonista, la prova del Malato immaginario: Argan non è un buffo ipocondriaco fissato, ma un uomo che percepisce il male del vivere, senza saperlo riconoscere e decrittare. Argan, è personaggio prebeckettiano.Testo arduo, tragedia mascherata e vibrante. Bella scommessa: Gioele Dix racconta che debuttò nel Malato, capolavoro di Franco Parenti, il quale lo rimproverava di non parlare, ma di fare rumore. Immagino scherzi: non fa rumore nemmeno in televisione, dove è elegante e impeccabile. Ma essendo un personaggio cult, Tomba o automobilista italico, rischierebbe di esorbitare, in un testo comunque ufficialmente comico, con tanto di vestaglia e berretto da malato. Non accade: in primo luogo perché Gioele, molto intelligente, è il primo a conoscere questi rischi. Si sacrifica fino a una quasi estrema immobilità beckettiana. Mirabile, è un attore che sa far ridere, non un comico che si improvvisa attore. E poi per merito della regista, come al solito impeccabile: Ruth Shammah, che credo imparentata con i Togni o con gli Orfei, ha dimostrato di saper domare alcuni dei più spavaldi e dotati felini del palcoscenico italiano. Figuriamoci con un gattone come Gioele: attento, recettivo, sornione come uno di quei Gatti di Eliot in Cats, ma poi, e soprattutto, vero attore drammatico, ottimamente accompagnato: bravi Anna Della Rosa, Marco Balbi, Valentina Bartolo… tutti. E le solite luci magiche di Gigi Saccomandi.
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