Epa/Adrian Bradshaw/Ansa
«Sì, lo so con certezza: la più divina delle consolazioni ci è a portata di mano, è custodita nel nostro animo. E d’altronde, del conforto di un Dio sapremmo farcene ben poco; basterebbe un occhio appena un po’ più terso, un orecchio appena più ricettivo, un sapore appena più intenso nel mordere un frutto, un naso appena più generoso nel sopportare gli odori, una pelle appena più presente e memore nel toccare e nel venir toccata, e allora subito dalle esperienze più prossime potremmo trarre consolazioni più forti, definitive e vere di qualsiasi dolore che ci possa mai scuotere». Così Rainer Maria Rilke, in una lettera del 1915. Le consolazioni ci sono, eccome; sono godute da chi è sensibile al mondo. Il conforto religioso è il surrogato inefficace di chi rifiuta le concrete consolazioni d’ogni giorno: abbondanti, evidenti, vincitrici su ogni dolore. Non ne è convinta la penna addolorata e commovente di Stig Dagerman, anima insultata da una serie di pesanti abbandoni, tanto da soccombere. Egli è più lucido nell’ammettere anche l’esistenza di false consolazioni, capaci di confondere i sensi con la loro attrazione fatale. Inoltre, le vere consolazioni non sono affatto illimitate, come sostenuto da Rilke, ma sporadiche e sfuggenti. Insomma, l’esperienza della consolazione è più complessa. Scrivendo Il nostro bisogno di consolazione, Dagerman parla di due scorciatoie, entrambe seducenti e false: «Vedo la mia vita minacciata da due forze: da un lato dalle bocche avide dell’eccesso, dall’altro dall’amarezza avara che si nutre di se stessa. Ma io mi rifiuto di scegliere tra l’orgia e l’ascesi, anche se il prezzo deve essere un tormento continuo». Anziché ricorrere a ripieghi che, come analgesici, tolgono momentaneamente il dolore senza guarire, Dagerman preferisce restare nella disperazione, aspettando l’andirivieni veloce della gioia e della bellezza che ogni tanto appaiono, sollevandolo per un attimo: «l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza». Purtroppo, queste consolazioni – evidenti, ma quasi istantanee come un batter d’occhio – non riusciranno a persuadere questo cuore spezzato. In qualsiasi caso, Rilke e Dagerman concordano nella critica alla consolazione religiosa, soprattutto cristiana. È inutile perché sedativa ed evanescente, a motivo della pretesa di saturare in nome Dio ogni senso di mancanza e abbandono. Come un premio di consolazione che, come tale, né premia né consola. Ma di che Dio stiamo parlando? Quale Dio hanno colto dall’annuncio cristiano giunto ai loro orecchi? Di certo non il Dio delle Sacre Scritture. Basta infatti leggere la pagina di Isaia (66,10-14) dove, con audacia mozzafiato, si dice che Dio consola allattando come una madre. Certo, un’esperienza gratificante. Eppure, l’allattamento agisce alternando poppata e astinenza, stretto contatto e distacco. L’allattamento non satura, ma prepara pian piano alla separazione tipica dello svezzamento. Nel momento preciso della sua efficacia, mentre consola un bimbo che gridando e piangendo si sente abbandonato, avvia una procedura di separazione. Insomma, si inizia un processo di allontanamento nell’atto stesso di consolare; come se il distacco non fosse solo il motivo del conforto, ma anche la sua condizione e il suo compimento. Tale dinamica freme nel primo annuncio di Cristo circa la presenza di Dio nel mondo: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Cioè Dio «è nelle vicinanze». Esattamente come una mamma che non resta sempre presso il suo bambino, ma deponendolo dopo la poppata, pian piano lo abitua a stare solo, allenandolo allo slattamento. Ella rimane nelle vicinanze (in cucina? in un’altra stanza?), pronta alla chiamata del piccolo. Tuttavia, egli la percepisce assente e considera interminabile l’attimo tra il grido, le lacrime e l’arrivo della madre. Urlando e piangendo, il bimbo lamenta il suo abbandono. La consolazione di Dio non promette alcun ritorno al 'paradiso perduto' (possono starne certi Rilke, Dagerman e molti altri); anzi ne è la più ferma negazione, poiché si colloca nella mancanza; l’andirivieni di Dio comprende la lontananza e l’abbandono. Del resto, perfino la Terra promessa non era una sconfinata prateria, ma un deserto punteggiato di oasi, attraversato dal Giordano, stretto fiume non sempre in piena, sfociante in un lago salato, privo di vita. Eppure, nell’istante stesso in cui Dio abbandonando lascia soli, sta consolando. Lasciati soli, nei bambini si accende il desiderio più bello: cominciare a giocare.