Opere di Giacometti nell’allestimento della mostra “Diego, l’altro Giacometti” in corso alla Fondazione Luigi Rovati - Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati © Diego Giacometti, by SIAE 2023
La piccola volpe che nel 1944 entrò nel suo studio parigino nei giorni successivi alla liberazione dai soldati tedeschi, un cucciolo che gli fu donato da un prigioniero di ritorno verso casa, dice molto, se non tutto, di ciò che si incarna in Diego Giacometti, il fratello del celebre scultore per il quale fu una fondamentale spalla di lavoro e di creatività prima e anche dopo il successo raggiunto da Alberto. Misrose, questo il nome della piccola volpe, «sempre così selvaggia con la gente», incarna l’indole animale, la selvatichezza che ha sempre abitato nel corpo e nella mente di Diego. Nel 1968, morto Alberto da un paio d’anni e ormai affermato come autore di oggetti decorativi, spesso ispirati al mondo animale; oppure di mobili, tavolini e altri pezzi d’arredamento, Diego rifiutò di sottoscrivere un contratto col gallerista Pierre Matisse, semplicemente perché a un gatto o a una volpe, ancor di più, non puoi imporre le quattro mura di una stanza o un legame vincolante. E infatti una sera, rientrando a casa, Alberto – che come ricorda Casimiro Di Crescenzo mal tollerava l’odore del piccolo animale – lasciò la porta socchiusa, e Misrose pensò bene di scappare. La mattina dopo per Diego fu un dramma in tutto simile alla perdita di una persona amata.
Parlare di Diego Giacometti offre vari spunti di riflessione, più di quanti si potrebbe pensare, non solo perché il suo lavoro è assai poco conosciuto, rispetto a quanto lo è invece la scultura del fratello Alberto; parlare di Diego significa apprendere del lavoro “decorativo” che lo stesso Alberto eseguiva per produttori di oggetti artistici d’autore, un ambito finora poco indagato, anche perché spesso le “quattro mani” della premiata ditta F.lli Giacometti si mischiano con attribuzioni di oggetti che talvolta passano da uno all’altro come esecutori. Questa creatività fu per loro una fonte di guadagno in momenti difficili, soprattutto fino alla Seconda guerra mondiale. Parlare di Diego, vuol dire, per esempio, riscoprire un pittore che in Italia aveva trovato luce decenni fa soltanto per iniziativa di Giovanni Testori, intendo Francis Gruber, morto precocemente a trentasei anni di tubercolosi nel 1948. Entrambi i fratelli Giacometti erano molto legati a Gruber, col quale condividevano un sentimento poetico, ma ancora una volta fu Diego a restargli vicino durante le settimane in cui si spense per la malattia, un morbo che lo aveva lentamente consumato facendolo assomigliare a quelle figure che dipingeva il cui aspetto anticipava un sentire già esistenzialista.
Alla Fondazione Luigi Rovati, da un anno sono stati inaugurati i nuovi spazi di corso Venezia, progettati dallo studio Cucinella, nei quali una collezione di arte antica trova ibridazioni temporanee, e non solo nelle scelte testimonianze moderne che bene si misurano col senso arcaico di opere anche di due o tremila anni fa esposte in permanenza nella fondazione. Di più, si deve esserle oltremodo grati che questa volta la scena tocchi a Diego Giacometti con una mostra davvero rara, in cui vengono presentati sessanta fra oggetti, sculture simboliche, mobili, vari elementi decorativi sotto l’ottica “scultura e design”, iniziando con tre Oiseau del 1942, che Diego eseguì in gesso, fil di ferro e stoppa per l’amico Gruber su richiesta della compagna del pittore, pezzi straordinari e finora mai esposti. Sono tre “chimere” di grande forza plastica e immaginifica, che richiamano sotto certi aspetti, le droleries medioevali, tema non lontano appunto dai bestiari antichi a cui, in effetti, Diego rimarrà sempre legato, forse perché nell’animale percepiva un’indole che spesso interpreta l’umano meglio di tanti discorsi, mettendolo a nudo, e divenendo così un argomento decorativo ma simbolico, estetico ed esoterico, con agganci, se vogliamo, anche agli archetipi che si rigenerano fino alla psicoanalisi. Diego è stato un sulfureo inventore di oggetti fantastici, ironici e ludici, il che forse è insolito in un tipo molto riservato e quasi minimalista nei modi. È senz’altro un’anomalia, per non dire una stranezza, in un artista oggi “di culto”, che «non sia mai stato tentato – come ricorda Di Crescenzo – un lavoro di catalogazione delle opere create in questi anni e ciò è dovuto in parte al carattere estremamente riservato e discreto di Diego, che non ha mai svelato i nomi dei suoi clienti». Lavorò infatti per grandi galleristi e facoltosi collezionisti internazionali.
Diego Giacometti nel suo studio - Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati © Diego Giacometti, by SIAE 2023
La maturazione di Diego fu lenta, come è normale che sia per un personaggio “misterioso” come tutto sommato appare, uno che doveva scoprire poco alla volta i propri talenti, che avanzava un passo alla volta come l’animale che prende le misure al luogo fiutando le trappole che incombono. Così quando Alberto nell’ottobre 1929 gli scrive invitandolo a Parigi per lavorare con lui, Diego ci pensa qualche settimana e poi parte, rendendosi subito d’aiuto (con grande soddisfazione della madre, Annetta, che temeva per il suo futuro; come in seguito, durante la guerra, era preoccupata per quel poco che Alberto stava realizzando col suo grande impegno). Già in quel periodo iniziale Alberto disegna per Jean-Michel Frank decine di oggetti, lampade e vasi, collaborando anche con decorazioni d’interni: caminetti, specchi, consolle ecc. Ciò che poi passerà maggiormente nelle competenze di Diego, e Di Crescenzo giustamente pensa che Alberto, trovato il successo come scultore, abbia voluto lasciare spazio a Diego, del quale ormai conosceva le grandi capacità inventive e tecniche. Ma questa simbiosi più o meno continua tra i due fratelli rende più difficile a volte separarne il segno. Diego nel 1938 disegnò due belle mani “reggitenda”, di timbro vagamente surrealista, che trovarono subito successo, come scrive alla madre, tanto che ne hanno «venduto subito 4 paia e altre se ne venderanno ancora». La guerra rompe gli schemi, Alberto riesce a tornare in Svizzera ma non può più rientrare a Parigi, dove Diego però non si perde d’animo, tiene in ordine l’atelier, lavora, entrando anche nella fonderia di Augusto Gianini, dove diventa espertissimo di calchi e fusioni, tant’è che lo soprannominano l’as des patines, il mago delle patine.
La sua prima mostra si tiene nel 1944, nella Parigi ormai liberata: espone, tra l’altro, una grande pantera e fa buone vendite. Nel 1948 Alberto tiene invece alla Pierre Matisse Gallery la mostra che ne consacra la fama di scultore. Anche Diego prova a fare teste, ma come sottolinea Di Crescenzo non ne cava il giusto pathos. Continua dunque con gli animali e a realizzare mobili, in particolare la parte decorativa. Tra i suoi committenti ci sono i galleristi Aimé e Marguerite Maeght, per i quali esegue oggetti artistici vari: lampade, sedie, poltrone, tavoli, applique, ringhiere, console, una grande gabbia per uccelli con la divertente scultura in bronzo del Gatto maître d’hotel che in posizione eretta tiene con le zampe un piatto nel quale gli uccelli possono posarsi per beccare il mangime. Dopo che Alberto nel 1966 muore per una malattia incurabile, Diego vive oltre un anno fra malinconia e depressione: più che normale fra persone che hanno lavorato spalla a spalla per quarant’anni; ma poi si getta di nuovo nel lavoro e produce quanto forse non aveva mai fatto prima, con una sorta di furore creativo. Tanti lo cercano e propongono commissioni. Anche il Museo Chagall lo cerca per realizzare le maniglie delle porte d’ingresso, oltre a lampade e sgabelli. Così il Museo Picasso di Parigi, dove deve misurarsi in grande, sia come spazi sia per le dimensioni. Ma mentre mancano poche settimane all’inaugurazione del museo Diego muore.
Che cosa ci lascia come propria cifra? La grande abilità di sublimare nell’oggetto decorativo il valore simbolico dell’elemento plastico, così che possiamo trovare un candelabro-scultura o un tavolino-scultura che prende dalle radici la sua idea, oppure un tavolino dove il piano in vetro è soltanto il necessario elemento funzionale di una immagine mitica ed espressiva; o ancora, l’autoironica scultura di struzzo la cui silhouette in bronzo porta l’uovo che gli fa da corpo; o, per finire, la bellissima lanterna a quattro luci in metallo, stoppa e gesso, che ha la forma aperta di una gabbia su cui, forse, potrebbero posarsi gli uccellini entrati dalla finestra di una sala, ma con la libertà, come Misrose, di scappare verso la libertà quando l’istinto comanda.