Louis-Michel van Loo, “Ritratto di Denis Diderot” (1767) - Parigi, Museo del Louvre
Basterebbe l’elogio del naïf a fare di Diderot un pensatore capace di guardare oltre lo stereotipo. Naturalmente, il significato del termine non è lo stesso che gli diamo oggi correntemente, quello di uno stile selvatico, primitivo, ingenuo e privo di una mediazione culturale: un modo di esprimersi impulsivo e senza un controllo autocritico. Diderot in uno dei suoi “pensieri sparsi” oppone il naïf all’affettazione, cioè a qualcosa di ostentatamente artificiale e artificioso. E questo ci autorizzerebbe, oggi, a definire naïf il cattivo gusto di una cospicua fetta dell’arte contemporanea che, per una ragione o per un’altra, assegniamo al Kitsch. Ma Diderot pensa coi parametri del suo tempo: «Non tutto ciò che è vero è naïf, ma tutto ciò che è naïf è vero e di una verità frizzante ( piquante), originale e rara». Anche questo ci consentirebbe di dire che ci fu un tempo in cui il Kitsch era naïf nel senso in cui lo intendeva Diderot, vale a dire frizzante, originale e raro, e la sua affettazione era tenuta sotto controllo. Poi il mondo ha cambiato i parametri di valutazione anche dell’arte e l’economia ha trasformato l’estetica nella sua ancella pubblicitaria, spingendola all’eccesso, all’elogio gratuito e falso, per la medesima convenienza mercantile che rende le opere d’arte beni di investimento, da custodire in caveau per le rare e solipsistiche visioni di chi ne è proprietario.
Per Diderot erano naïf Raffaello e Poussin. Non so quanti resisterebbero senza inorridire ascoltando quel vocabolo applicato ai due grandi classici. Ma Diderot dichiara apertamente che intende “ampliare l’accezione“ di naïf: non dice più soltanto semplicità, ma anche innocenza, verità e originalità «di una infanzia felice che non è mai stata repressa », molto vicina al sublime ed «essenziale per ogni prodotto delle belle arti». La raccolta completa degli scritti di ambito artistico di Denis Diderot editi ora nella collana del “Pensiero occidentale“ di Bompiani (testo francese a fronte; a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, con un saggio di Massimo Modica) ci può servire per verificare quanto siano cambiati gli orizzonti fra il nostro modo di pensare l’arte e quelli dell’epoca e del pubblico per cui scriveva il grande filosofo, drammaturgo e critico francese, che fu uno degli artefici anche dell’Encyclopédie.
Non è inutile farsi le domande che probabilmente si faceva anche Diderot accingendosi all’opera. Che cos’è l’arte? Che cosa fa l’arte? Che cosa significa e a che cosa serve? Ma ancor prima di rispondere a queste domande Diderot ci mostra, col suo esempio e la sua scrittura, le origini della critica d’arte. Potremmo chiederci, per esempio, se, coi criteri che vengono adottati oggi per definire ciò che è arte e ciò che non lo è, ci si debba rassegnare a un’arte contemporanea che non ci piace. Ma se anche quest’arte non ci piace, siamo autorizzati a dire che non è arte?
Diderot, come sottolinea la curatrice, mette un limite anche al libero arbitrio, tanto dell’artista quanto del critico, poiché è ben chiaro a lui, come dovrebbe esserlo anche a noi, che l’arbitrio è sempre una relazione col contesto, con la cultura del proprio tempo. Se si leggono certe recensioni, o talvolta persino libri, della critica contemporanea si potrà constatare che spesso la parola “capolavoro” si spreca più volte in poche righe. Diderot ci fa capire che se si usa questa definizione occorre darle un contesto, ovvero porre l’opera in relazione al mondo in cui nasce e ai principi che lo governano. L’arte è figlia del proprio tempo anche quando gli si ribella.
E lo spettatore, come deve comportarsi? Deve avere uno sguardo disinteressato, che non vuol dire indifferente, ma purificato dalle passioni personali, dalle emozioni che possono sviare il giudizio, libero dalle ipoteche del discorso extra-artistico. Deve avere una certa distanza. Bella pretesa, indubbiamente. Lo stesso Diderot lungo gli anni cambia modo di scrivere le sue cronache dei Salon sul giornale “Correspondance littéraire” e impiega del tempo a mettere a punto il suo stile tra il 1759 e il 1781, quando anche la misura dei suoi saggi da breve (una decina di pagine nel 1759) si fa lunga, talvolta prolissa (oltre duecento nel 1767). Ma Diderot ha avuto carta bianca dal suo editore, e si prende tutte le libertà e gli spazi che vuole, dando in cambio tanti spunti per far “chiacchiere” ai notabili dell’aristocrazia e della borghesia europea. L’appetito – scrive – non è una conseguenza dei morsi della fame, ma una inclinazione al piacere dello sguardo, è nasce dal gusto, che è categoria morale. E le sue cronache romanzate o drammatizzate, ne sono appunto la rappresentazione critica.
Quando un filosofo dell’arte ci parla della natura, bisogna drizzare le antenne perché i rapporti fra natura e arte hanno generato spesso i più grandi equivoci. Diderot ci parla della natura come modello e regola, senza ridursi alla solita querelle dell’imitazione. Non all’apparenza delle cose ci si deve fermare, ma portare l’occhio fino alla soglia dell’anima. La svolta si ha quando Diderot recupera un concetto oggi poco praticato: il je ne sais quoi. Il non-soche, l’ineffabile e indicibile, un termine chiave in filosofi come Bergson e Jankélévitch, o nella musica di Debussy, Satie, Fauré, Mompou; è il senso dell’invisibile che tocca i più grandi artisti visivi del Novecento e tutto quel filone esistenziale che non ha ridotto alle questioni della forma un segreto che sfugge alla presa dell’occhio: qui il cuore nel senso pascaliano del termine ha buon gioco. La maggiore conquista che Diderot ci lascia sul piano metodologico riguarda la funzione del critico: egli è l’intermediario fra l’immagine-opera e lo spettatore.
Se all’epoca era ancora in embrione, sarà con Baudelaire che il critico militante farà il salto decisivo. Il critico come raccordo fra l’opera d’arte e la nuova platea allargata dell’umanità che si sta imponendo. Ma già con la Rivoluzione francese i musei erano diventati luoghi di formazione per cittadini consapevoli ed emancipati. Una funzione purtroppo oggi assai disattesa. Diderot accetta questa scommessa nel 1759 quando gli viene proposto di tenere delle cronache dei Salon che si svolgono al Louvre ogni due anni. Anche se non ha una specifica esperienza delle arti visive, Diderot accetta e va “a lezione” dall’abate Galiani; si fa accompagnare da artisti come Chardin, Vernet, Greuze che gli svelano certi segreti tecnici. La sua volontà, come scrittore drammaturgo e filosofo, è quella di mettere in scena la pittura. Lo fa, per esempio, nel sogno che chiama L’antre de Platon, dove produce, come sottolinea la curatrice, una sorta di ekfrasis, una ’analogia verbale, del dipinto di Fragonard Coreso e Calliroe. Un metodo che segna un filone importante della critica d’arte otto-novecentesca, che trovò nelle Proposte per una critica d’arte di Longhi un manifesto. Nel sogno di Diderot le ombre che animano la pittura si animano sotto la lampada della scrittura. Come dirà nel Salon del 1763, si tratta di rendere come un racconto l’istante della rappresentazione. Ma è anche una strada all’empatia che fa sentire la forma, la verità, la manifestazione del possibile.
In questo, Diderot mette a frutto certamente la lettura dei trattati di Roger De Piles, grande sostenitore della forza vitale del colore contro la durezza plastica del disegno che ha in Poussin colui che pietrifica la realtà; però, come a salvare un approccio non dogmatico, esalta anche l’efficacia del “discorso” che Charles Le Brun coglieva nell’opera dello stesso Poussin. Ogni critico ha il suo artista d’elezione: per Diderot era Chardin. E si deve dargli atto di aver colto nel segno: Chardin «pone il suo quadro davanti alla natura e lo giudica brutto fino a quando non ne sopporta la presenza» – scrive. Non nega che un ritratto di La Tour abbia «più valore di un quadro di genere di Chardin» tuttavia è certo che il futuro «si parlerà di La Tour, ma si guarderà Chardin». E anche l’azione illusiva di Chardin è pura e vera più degli antichi: egli inganna dicendo la verità, mentre Zeusi e Parrasio scelgono di ingannare lo spettatore. E conclude che anche l’arte ha la sua metafisica, il cui oggetto è «la natura, la bella natura, la verità». Rileggere Diderot oggi ci fa capire come fare critica non significa dare sfoggio di cultura ma tradurre un sapere in una messa in scena che parla allo spettatore mediando fra lui e l’opera.