Particolare del gesto benedicente del Pantocratore nel duomo di Cefalù - WikiCommons
Desmond Morris, zoologo ed etologo inglese autore nel 1967 del celebre La scimmia nuda, si è più volte dedicato all’attività estetica che caratterizza la specie umana ed è egli stesso pittore di stampo surrealista. In In posa. L’arte e il linguaggio del corpo pubblicato da Johan&Levi (traduzione di Ester Borgese, pagine 320, euro 32,00), di cui pubblichiamo qui parti dal capitolo “Benedizioni”, fa del panorama delle opere d’arte un campo di indagine per indagare il repertorio, complesso e cangiante, della comunicazione non verbale.
Oggi, l’atto di dare o ricevere una benedizione svolge un ruolo marginale nella vita quotidiana e, nella maggior parte dei casi, è riservato alle cerimonie religiose. Tuttavia, compare spesso nelle opere d’arte antiche, dove alcune sottili differenze nei gesti che compongono l’azione spesso confondono lo spettatore contemporaneo.
La forma di benedizione più semplice è l’imposizione delle mani, una pratica perlopiù associata alla cristianità. Poiché questa forma implica un contatto fisico tra due persone, era forse inevitabile che se ne sviluppasse una variante adatta a una scala più ampia, in modo che un intero gruppo potesse essere benedetto con una sola azione. Questo risultato fu ottenuto attraverso una forma di benedizione in cui si iniziava a eseguire l’imposizione delle mani, ma poi ci s’interrompeva prima che avvenisse il contatto fisico. Il palmo o i palmi venivano sollevati e poi veniva dispensata la benedizione verbale, mentre il braccio o entrambe le braccia restavano a mezz’aria.
Forse si avvertì la necessità di cambiare in qualche modo la posizione della mano per rendere più specifica l’azione, mantenendo alcune dita dritte e altre leggermente piegate o curve. Nell’ambito religioso nacquero delle complicazioni quando determinati gruppi di cristiani adottarono posizioni delle dita leggermente diverse. Nelle opere antiche, gli artisti prestarono molta attenzione a queste piccole variazioni.
Quando nell’XI secolo la Chiesa cristiana si divise in due – Chiesa d’Oriente e d’Occidente, ortodossa e latina –, la Chiesa cattolica romana, adottò un segno di benedizione che consisteva nel tenere dritti il pollice, l’indice e il medio, e nel piegare le altre dita, con il palmo rivolto in avanti. Secondo l’interpretazione ufficiale, le tre dita distese simboleggiano la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Tuttavia, di recente è stata avanzata una spiegazione alternativa, secondo cui all’origine di questo gesto ci sarebbero delle ragioni mediche. Secondo Bennett Futterman, professore americano di anatomia, deriverebbe da un problema al nervo della mano del primo papa, san Pietro, che non riusciva a estendere appieno tutte le dita. Seguendo questa interpretazione, i primi cristiani avrebbero copiato il gesto della benedizione con la mano piatta dai sommi sacerdoti ebraici, tuttavia un danno al nervo ulnare avrebbe impedito l’estensione dell’anulare e del mignolo a Pietro. I papi successivi, per rispetto del fondatore della Chiesa, avrebbero poi adottato la stessa forma di benedizione.
In seguito allo scisma della Chiesa cristiana, la Chiesa ortodossa adottò una propria versione del segno di benedizione. Si trattava di un gesto complesso in cui ogni dito veniva posizionato in modo particolare per formare il monogramma in codice per “Gesù Cristo”. Il monogramma era IC XC, un’abbreviazione del nome greco di Gesù. Il codice era il seguente: I = indice disteso; C = medio ricurvo; X = pollice e anulare incrociati; C = mignolo ricurvo.
Nella pratica, questo gesto sembra troppo elaborato per un uso quotidiano e, a giudicare dal modo in cui è spesso rappresentato nell’arte della Chiesa ortodossa greca, è stato semplificato in un segno circolare fatto con l’unione dei polpastrelli di pollice e anulare. Quella che vediamo nell’arte è una versione ridotta dell’antico segno codificato, ma che si distingue comunque dalla benedizione latina.