Giorgio Griffa, “Red Hood” - Vita e Pensiero
C’era una volta la verità delle favole. Poi è arrivato Disney, e un po’ come le streghe cattive ha rovinato tutto; ha banalizzato il genere rendendolo, se così si può dire, innocuo. Ma come un “Pollicino” tenace, il filosofo Silvano Petrosino, cattedra di Antropologia all’Università Cattolica, ha seguito i sassolini dei grandi intellettuali per ridare alle fiabe il posto che meritano: proprio lì, sullo scaffale della grande letteratura, quella che costringe a fare i conti con i segreti più indicibili della vita. Del resto, chiarisce subito Petrosino, «portare alla luce alcuni nodi essenziali dell’aggrovigliata trama dell’umana esperienza, come ricordava Cassirer, è l’essenza della grande letteratura come delle favole che, alla fine, sono sostanzialmente rappresentazioni simboliche di fondamentali esperienze di vita». Esperienze, appunto: è intorno a questo concetto che nasce la passione del filosofo per le favole. In principio oggetto di un piccolo saggio, le fiabe sono poi diventate spettacolo (Petrosino sarà al teatro Sala Argentia di Gorgonzola il 20 marzo con Cenerentola e il 27 marzo con Biancaneve, sempre alle 21.00).
E ora tornano nuovamente a essere un libro, versione rivista e arricchita del primo volume del 2013 ( Le fiabe non raccontano favole, Vita e Pensiero, pagine 192, euro 16,00). Con un sottotitolo - Una difesa dell’esperienza – dal tono apologetico e solo apparentemente facile. La questione, invece, è assolutamente problematica, perché come uomini e donne sulla nostra esperienza non siamo mai sinceri. «Ci inganniamo per tirare avanti; costruiamo un sistema di concetti e pensieri che giustificano i nostri limiti; ci rifugiamo nell’ideologia o nell’idolo» spiega Petrosino, «mentre le fiabe, se impariamo a leggerle, guardano in faccia le contraddizioni umane più profonde: il lupo è cattivo, ma Cappuccetto rosso ne è comunque attratta; nelle relazioni più belle e apparentemente innocenti della famiglia persino i bambini devono fare i conti con il rancore, l’invidia (Biancaneve), l’odio fra le generazioni (Cenerentola). Insomma, con le parole che diventano affermazione di sé e dietro l’apparenza del dialogo nascondono un desiderio smisurato di potere». Si potrebbe dire, dichiarando l’azzardo, che queste storie non solo costituiscono un deposito inesauribile di cultura tradizionale – per chi vuole andare alla fonte, l’edizione dei fratelli Grimm, meglio di Perrault, Disney e dintorni assolutamente da evitare – ma anche una forma di psicoanalisi collettiva, popolare ma profonda. Non a caso, nel saggio di Petrosino, ritorna a più riprese l’ermeneutica lacaniana, come se la ricerca del vero attraverso la finzione delle favole fosse assimilabile al terapeuta che nelle menzogne del paziente cerca i desideri autentici dell’uomo.
Silvano Petrosino - archivio
Non c’è solo Lacan e la sua idea di “esperienza integrale” a orientare il percorso analitico (qui si gioca con le parole, ovviamente) del saggio: le riflessioni di Dürrenmatt, Ricoeur, Bettelheim – e tanti altri grandi del pensiero contemporaneo – accompagnano il bisturi del filosofo alla ricerca dei passaggi fondamentali dell’esistenza, e di quella femminile in particolare: l’arrivo della fertilità, la rivalità tra sorelle, la menopausa come anticipo simbolico della morte. Le tre fiabe considerate nella riedizione del saggio ( Cappuccetto rosso, Biancaneve, Cenerentola) hanno infatti al centro figure di donne, o di bambine che lo diventano. « Nel femminile – aggiunge Petrosino – emergono in maniera sostanziale alcuni tratti costitutivi dell’esperienza umana in generale. Ne segnalo qui due: il tempo che si fa concretezza viva attraverso le progressive trasformazioni del corpo, la vocazione all’accoglienza che non è solo – si badi bene – il tempo della cura». Ma le fiabe non sono buonismo a buon mercato: l’universo delle storie popolari, così come quello degli uomini, non si illude di nascondere il male: il lupo continua a vivere nel bosco (e non è possibile liberarsene una volta per tutte, come dimostra il finale originale – spesso sconosciuto - del racconto dei fratelli Grimm); la violenza è inestirpabile, anche nella versione truce del “divorare”, e la solitudine è intrinseca dell’esperienza umana.
«Tutti questi elementi convivono con i tre attributi sostanziali delle fiabe: non sono solo per bambini, mirano all’essenziale, non hanno una retorica mitica ma ordinaria» chiosa Petrosino. «O per dirla in maniera più moderna, e con un certo grado di approssimazione di cui mi perdonerà il collega Aldo Grasso, rispetto alla fiction di grande successo che mira soprattutto a consolare e divertire, la finzione della fiaba cerca di dire la verità». E lo fa sempre attraverso un “viaggio di iniziazione”, che idealmente dovrebbe portare a sciogliere quello (s)nodo decisivo che l’autore chiama spesso la “legge della doppia nascita”: si viene alla vita senza deciderlo, ma non si diventa autentici uomini/donne senza deciderlo. E così, attraverso la lettura delle fiabe, ritornano in superficie i temi più cari e ricorrenti del filosofo della Cattolica: l’urgenza di mettere al primo posto, anche nella vita sociale, serietà e sincerità; la sfida di sostituire la vanità con la verità; l’audacia di non trasformare i desideri in ostinazione. Leggendo il libro si passa, pagina dopo pagina, da un saggio straordinario sulla comunicazione a una girandola di pensieri, intuizioni, rivelazioni, riscoperte che scaturiscono da una lettura sorprendente di storie impolverate dai canoni più superficiali della divulgazione moderna. Nei mesi scorsi, queste storie, il professor Petrosino le ha raccontate a suo modo anche stando sul palco, facendosi accompagnare da un’attrice e da un pianista. Con il risultato che la reazione più normale era: « Noi non le sapevamo così, non ce n’eravamo accorti, eppure era tutto lì, semplice e chiaro a volerlo vedere ». Quale miglior complimento per chi, praticando la magia che trasforma l’innocuo delle favole nel fuoco vivo della scoperta inattesa, considera come una vocazione lo studio, la scrittura e l’insegnamento?