sabato 8 giugno 2024
L’assassinio fascista oscurò a lungo la sua opera e il suo pensiero: socialista sì, ma riformista. La ricchezza della sua personalità emerge anche dalle lettere con la moglie, la poetessa Velia Titta
Giacomo Matteotti con un dei figli

Giacomo Matteotti con un dei figli - WikiCommons

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C’è stato un Matteotti prima del delitto. Considerazione scontata, si dirà. Ma la sua crudele eliminazione da parte dei fascisti, di cui domani si celebra il centenario, ha da un lato costretto in una sola dimensione, quella del coraggioso oppositore e conseguentemente del martire, la figura del socialista polesano. Dall’altro - e in modo complementare – ne ha circonfuso di mito l’opera, evitandone a lungo la dovuta storicizzazione. In realtà Matteotti è stato un personaggio complesso: in anticipo sui tempi, coraggioso e appassionato, ma non esente da errori. Giacomo Matteotti. Un italiano diverso (Bompiani, pagine 336, euro 18,00) è il titolo che lo storico Gianpaolo Romanato ha dato alla biografia dell’illustre conterraneo. Docente emerito di Storia contemporanea presso le Università di Padova e di Trieste-Gorizia, Romanato è infatti originario di una famiglia di Fratta Polesine, il paese natale di Matteotti, dove presiede il Comitato scientifico della Casa Museo a lui intitolata. La prima edizione del volume risale al 2011 e questa nuova, sottolinea l’autore - pur a titolo invariato - non ne è un semplice aggiornamento.

Nel mondo il nome di Matteotti è diventato sinonimo di libertà. A lui sono dedicate vie, piazze e monumenti in tutto il mondo. A Vienna un intero quartiere porta il suo nome. Da noi Matteotti nel dopoguerra «divenne un’icona da rispolverare nelle occasioni ufficiali, mal compreso e sostanzialmente sconosciuto, prigioniero di un mito che divideva anziché unire, nelle alterne fortune della politica e dello scontro incessante tra partiti». Divideva soprattutto a sinistra, dove duro a morire è stato l’astio dei massimalisti verso i riformisti. Nei primi anni Settanta l’Einaudi, ai tempi vicina al Pci, non volle pubblicare gli scritti del politico socialista, poi usciti in tredici volumi dal 1983 al 2020 per Nistri Lischi e Pisa University press, a cura di Stefano Caretti. Le fonti iniziarono a essere pubblicate e studiate dal 1974, quando il presidente della Camera Sandro Pertini promosse la pubblicazione dei discorsi parlamentari. Matteotti fu poi definitivamente “sdoganato” e restituito al suo valore storico dal crollo di quella che Pietro Scoppola ha definito la “Repubblica dei partiti”.

Non solo Delitto Matteotti, dunque, quasi che la brutale fine ne definisse l’identità, ma Giacomo Matteotti, nato a Fratta Polesine il 22 maggio del 1885. Romanato ne inquadra da subito vita e opera nel contesto di quella zona dimenticata, segnata dall’emigrazione, arretrata e poverissima come attestavano le numerose inchieste giornalistiche e parlamentari succedutesi, tra le quali quella celeberrima condotta dal senatore del Regno Stefano Jacini. Un territorio che, quando Matteotti muove i primi passi in politica, sta conoscendo una profonda trasformazione. Con una dialettica accesa tra i movimenti popolari: quello prevalente nelle campagne, il socialista, e quello cattolico che aveva ideato le casse rurali. Ai due, dopo la Grande guerra, si aggiunse quello fascista. In un contesto di miseria la famiglia di Giacomo era, invece, benestante. Nonno Matteo e papà Girolamo, commercianti, oltre a fornire agiatezza agli otto fratelli, diedero qualche grattacapo a Giacomo. Il primo, rissoso e bevitore, morì dopo una lite con un cliente. Il secondo fu accusato di essersi arricchito anche grazie all’usura. Elementi che fornirono frecce all’arco di chi nella polemica politica sottolineava l’estraneità del socialista al mondo del quale si proclamava difensore. E gli costarono gli epiteti di «socialista milionario» e «rivoluzionario impellicciato», per l’abitudine di indossare una pelliccia d’inverno. Il censo gli permise soggiorni all’estero (ne trasse contatti internazionali e padronanza delle lingue) e di alloggiare in albergo durante gli studi universitari a Bologna. Eccelse nel Diritto penale, aderendo alla scuola classica di orientamento illuminista, a metà strada tra le istanze dei socialisti e dei positivisti alla Cesare Lombroso. Posizione che gli costò le perplessità di Filippo Turati, con il quale in politica il sodalizio sarà invece lungo. Per capire la tempra del Matteotti poco più che ventenne, si pensi che si inimicò quello che oggi si direbbe un “barone”, stroncandolo e ricevendone in contraccambio reazioni stizzite. Il suo maestro lo vedeva già in cattedra. Ma la passione politica fu più forte e dal 1910, tre anni dopo la laurea, prese il sopravvento sugli studi, che però ebbero un ritorno di fiamma dal 1916 a 1919, durante il confino in Sicilia, dove era stato mandato per le sue posizioni neutraliste.

Proprio nel 1916 Giacomo aveva sposato Velia Titta. Fu l’altra passione forte della sua vita. Oltre – e in certo senso anche contro - la politica. I due non potevano essere più diversi. Lei poetessa, lui pragmatico. Lei cattolica, lui socialista. Non fu, dunque, un rapporto simbiotico con l’impegno pubblico come quello tra Turati e la Kuliscioff. A Giacomo e Velia e al loro “epistolario sconosciuto” è dedicata la parte centrale del libro, che attraverso lo scambio di lettere frammentario (emerso tra fine anni Ottanta e primi Duemila) ricostruisce i tratti psicologici - fermezza e radicalità ma anche dubbi, solitudine e malinconia - di Matteotti. E i sacrifici che impose alla famiglia, Ad esempio al cognato Titta Ruffo (aveva invertito nome e cognome), un tenore famosissimo che si vide la carriera stroncata dalla vicinanza all’oppositore del regime.

La cui parabola politica durò solo 14 anni. Anni che però furono decisivi per il destino dell’Italia. “Riformatore e rivoluzionario” è il titolo dell’ultimo capitolo, nel quale Romanato ribadisce la convinzione che «l’importanza di questa figura non consista tanto nella sua tragica morte, che pure l’ha consegnato al pantheon delle glorie nazionali, quanto piuttosto nella sua breve vita. Le ragioni della sua sconfitta, perché di sconfitta si è trattato, se ci atteniamo ai fatti e non vogliamo scambiare il mito con la realtà, coincidono con le ragioni della sconfitta di un’intera classe politica e, in definitiva, della democrazia italiana». Le ultime pagine sono dedicate all’infuocato discorso del 30 maggio e al tragico epilogo, ai suoi strascichi e a tutti i suoi “perché”. Che vanno dall’ipotesi meramente politica a quella politico-affaristica, visto che Matteotti stava per pronunciare un discorso in cui avrebbe messo nel mirino tangenti petrolifere a favore del governo. È la tesi proposta dallo storico Mauro Canali nel suo monumentale saggio Il delitto Matteotti, uscito nel 1997 per i tipi del Mulino, che ora lo ripropone in una versione aggiornata e ridotta (pagine 360, euro 26,00). Al di là dell’orrore, fu anche un delitto «stupido» come lo definì il «fascista anomalo» Giuseppe Bottai, perché conclude Romanato, creò un mito. «E uccidere un mito è molto più difficile che uccidere un uomo».

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