Lo scrittore Mario Rigoni Stern nel 1995 - Fotogramma
Viene riproposto da Einaudi, con una nuova premessa di Eraldo Affinati (che già aveva scritto la prefazione all’edizione di vent’anni fa), uno dei titoli più celebri dello scrittore di Asiago, nato nel 1921 e scomparso nel 2008: Il sergente nella neve, libro di ricordi della ritirata di Russia scritti in un Lager tedesco nell’inverno del 1944, edito nel 1953 nei “Gettoni” della casa torinese diretti da Vittorini. La nuova edizione, da cui anticipiamo la premessa di Affinati, esce in questi giorni (pagine 130, euro 11,00).
Vent’anni fa, quando uscì nei “Supercoralli” la mia prefazione al Sergente nella neve, avevo appena incontrato Mario Rigoni Stern: furono proprio queste pagine a farci conoscere, al punto che decisi di utilizzarle come primo tassello del saggio per le Storie dall ’Altipiano, la raccolta di tutte le opere del grande scrittore di Asiago da me curata per i Meridiani della Mondadori nel 2003. Rileggerle adesso significa tornare con la memoria a quei giorni ormai lontani: tempi di passeggiate fra l’Ortigara e il monte Fior, là dove Mario, impugnando il bastone per sostenersi lungo il cammino, mi raccontava la sua Russia fermandosi ogni tanto a cogliere o qualche fungo per condire la pasta o una stella alpina da regalare a mia moglie. Avevamo trovato subito una bella intesa, fatta di sguardi e parole, complicità e muti ammiccamenti. Io avevo l’età dei suoi figli e lui apparteneva alla generazione di mio padre. Eppure assomigliavamo a compagni cresciuti l’uno accanto all’altro. Ci univa la passione letteraria, quasi avessimo letto gli stessi libri. Gli chiedevo di Viktor Nekrasov e mi sunteggiava la trama delle Trincee di Stalingrado. Evocavo Huckleberry Finn e vedevo brillare i suoi occhi. Accennavo a un racconto di Cechov e finivamo per celebrarlo insieme. Durante le nostre escursioni gli avevo confidato che mi capitava spesso di recitare a scuola, nei bienni dell’istituto tecnico dove allora insegnavo, Il sergente nella neve: con gli alpini della Tridentina facevo sempre centro perché i ragazzi restavano stregati. Vederlo compiaciuto mi rendeva felice. Nacque così un’amicizia speciale. Credo avesse apprezzato la particolare connotazione che nella nota introduttiva avevo dato al suo capolavoro: il lirismo interno, non esibito, il respiro universale, non locale, la contestazione del celebre giudizio limitativo vittoriniano, il microcosmo del caposaldo, l’odissea della ritirata, il rapporto poetico e strutturale fra le due parti, l’integralità dell’esperienza, l’impianto morale del resoconto, la responsabilità del sottufficiale, il sentimento nazionale e popolare, l’andata e ritorno fra passato, presente e futuro, De Ségur e Lev Tolstoj, Paolo Monelli e Ernest Hemingway, il cielo biblico, i ciechi di Bruegel, le scope che volano di Chagall... Tutto questo, a ben pensare, era per lui anche un dovuto risarcimento. Mario Rigoni Stern, infatti, non dimentichiamolo, pagò caro il pregiudizio e l’ostracismo di chi per lungo tempo lo aveva tenuto un po’ in disparte, considerandolo un semplice autore “alpigiano”, senza riconoscere la dotazione stilistica unica che egli recava nei suoi cromosomi espressivi: una dimensione epica abbastanza inusitata nella letteratura italiana del Novecento che oggi invece giustamente gli riconosciamo.