venerdì 24 febbraio 2017
Il Senegal è terra di partenze, per sfuggire alla povertà, ma anche di ritorni volontari o forzati dopo anni di vita all’estero. L’intreccio genera una cultura unica, fatta di “uomini in sospeso”.
Alcuni pescatori che tirano a riva le reti sulla spiaggia di N’Gor (Maurizio Fantoni Minnella)

Alcuni pescatori che tirano a riva le reti sulla spiaggia di N’Gor (Maurizio Fantoni Minnella)

COMMENTA E CONDIVIDI

Per la quasi totalità degli abitanti di Dakar la vita si svolge sulla strada: gente che si accalca sui bus strapieni, che sviluppa del commercio minuto intorno ai luoghi di transito, sulle grandi arterie di entrata nella metropoli, sotto i cavalcavia, in radure desolate dove si pratica il lavaggio abusivo di automobili, nei mercati improvvisati di frutta e verdura, nelle baracche o nei container in cui si comprano e vendono gomme e altri pezzi di ricambio, materiali ferrosi, granaglie, o tra i venditori ambulanti di alimentari, tappeti, quadri e altre cianfrusaglie. È l’immagine molto comune di un’Africa urbanizzata a macchia d’olio, che respira di un respiro affannoso avvelenato dalle nubi nere degli scarichi di bus e automobili, che rimanda ad un altrove sommesso dove la natura generosa e il silenzio dei villaggi rurali testimoniano di un’altra Africa possibile, pasolinianamente più umana. Dakar, metropoli portuale dell’Africa Occidentale, è città informe, senza una precisa fisionomia urbana che non si basi sul semplice tripolarismo centro-periferia- corniche, troppo recente, rispetto, ad esempio, ad un’altra città del Senegal come Saint-Louis, per vantare forma e bellezza dell’architettura coloniale, ed altresì, troppo secondaria rispetto ad altre città ex capitali coloniali come Algeri o Casablanca, per godere di una modernità architettonica dignitosa e, in certo modo, rappresentativa. Comunque città orizzontale, protratta sull’oceano Atlantico, priva delle grandi torri di acciaio e vetro del potere globale che caratterizzano ormai la maggioranza delle capitali del pianeta.

In questo continente i bambini sono la vera incognita del futuro, l’energia vitale, l’ossessiva onnipresenza, e, infine, la speranza di un futuro che, per molti di essi, quasi certamente si infrangerà oltre i confini geografici, politici e soprattutto culturali del continente africano. Ve ne sono anche di una specie particolare, i talibè. Creature infelici, malvestite, costrette a mendicare per 500 sefa al giorno dai marabut (o marabutti), i maestri di Corano che insegnano loro il Libro a memoria nei daara (le scuole coraniche situate in piccole abitazioni urbane, talora veri e propri tuguri) e l’accattonaggio come forma di obbedienza e di umiltà. Ci parla di loro Maria Laura Mastrogiacomo, dai tratti e dai modi gentili, che da molti anni vive e lavora in Africa come pediatra, e che incontriamo nella sua casa di Dakar sulla corniche. Ci racconta che quando i daraa si trovavano ancora nei villaggi avevano una funzione educativa e sociale, quindi s’integravano con la comunità d’appartenenza. L’urbanizzazione forzata, che segnò l’arrivò nelle città di molti bambini, ha spinto alcuni Marabut a sfruttare questa manodopera minorile per il proprio fabbisogno e arricchimento personale. Per spezzare la giornata dei talibee, fatta, appunto, di preghiere ed elemosina, Maria Laura ha istituito, con l’aiuto di un’associazione italiana ( Janghi), una scuola dove i bambini e i ragazzi possono anche studiare, offrendo loro una possibilità di riscatto nell’istruzione. Tuttavia l’accattonaggio minorile continua ad essere considerato in questo paese una piaga sociale.

Il Senegal è una terra di ritorni, ossia di migranti che dopo mesi o perfino anni di vita all’estero, in Italia o in altri parti d’Europa, rientrano a casa, inserendosi, nei casi più fortunati, in diverse ipotesi lavorative, spesso con l’aiuto della cooperazione internazionale. A Pikine, un sobborgo di Dakar, non lontano dal Camp Thiaroye (reso celebre dal film omonimo di Ousmane Sembene del 1987), incontriamo Abdullaye Diallo, un senegalese di cinquant’anni che dopo dodici anni vissuti in Italia utilizzando il permesso di soggiorno di un altro immigrato fu scoperto, licenziato dalla fabbrica dove lavorava e dopo varie vicissitudini e vessazioni da parte dell’ex datore di lavoro, è riuscito a ritornare in Senegal, grazie all’impegno di una Ong italiana, la torinese Cisv che lo ha aiutato nel viaggio e nel sogno di realizzare un piccolo commercio di materiale elettrico usato in un container del quartiere. «Qui tutti riescono a lavorare», ci dice con soddisfazione, ma la sua voce è sovrastata dal caos delle automobili che sfrecciano lungo la strada nazionale. A Saint-Louis, nel Nord del Paese a pochi chilometri dal confine con la Mauritania, nel quartiere di Guet N’Dar, quello sulla terraferma abitato perlopiù da famiglie di pescatori che vivono in baracche di cemento di fronte all’oceano, ascoltiamo la voce di Jairmain Fall, un giovane scampato per miracolo al naufragio di una piroga.

È un ricordo lontano, tuttavia la paura dell’oceano si mescola alla seduzione della partenza. Qui, ancora troppi giovani dicono di essere pronti a partire, sia pure per altre rotte, non per mare, ma per terra. L’Occidente globale è come un magnete irresistibile che trasforma un giovane africano povero in un africano morto, o, nel migliore dei casi, in un africano non più schiavo ma neanche uomo libero, piuttosto un “uomo in sospeso”. Sulla costa di Saint-Louis popolata di piroghe colorate, gli uomini, in silenzio, rattoppano le reti, le donne vendono il pesce sopra cassette di legno marcio, mentre i bambini giocano in strada con la palla. È la malinconia dell’Africa che qui a Saint-Louis, tra l’isola di Ndar sul grande fiume Senegal e la terraferma, si trasforma in saudade, in malinconia postcoloniale. Il battello carico di passeggeri leva gli ormeggi in direzione dell’isola di Gorée che si trova a poche miglia dalla costa di Dakar. Ho atteso a lungo prima di andarci, trattenendo l’emozione verso un luogo magico e terribile al tempo stesso. Un luogo necessario la cui suggestiva e silenziosa bellezza, risalente al XVIII secolo, tempera la memoria di una delle più grandi crudeltà compiute dall’essere umano, ossia la tratta degli schiavi. Crudeltà e non tragedia, perché nel primo termine è implicito un giudizio storico e politico, mentre nel secondo una sommessa celebrazione.

Il luogo, nonostante la presenza dei turisti, è solenne e insieme quotidiano, legato ai riti più semplici della vita: la custodia degli animali da cortile, la cura delle piante e degli arbusti davanti alle case, la preparazione del cibo e il lavaggio dei panni da stendere nei cortili. Nell’isola tutti cercano la Casa degli schiavi, un piccolo edificio a due piani (uno per gli schiavi, l’altro per i negrieri, appena ingentilito da due scalinate simmetriche) per conoscere, provare un’emozione, lasciarsi trasportare dall’immaginazione di un tempo lontanissimo, avventuroso, ingiusto e crudele. Due uomini di colore, padre e figlio, affacciati al balcone del primo piano, guardano il mare Oceano. Sono immobili come statue che si imprimono nella memoria; essi sono gli eredi diretti, uomini liberi di altri uomini e donne schiavi che un tempo, dalla finestra che sta ancora al centro della prigione, piangevano nel vedere l’immensa distesa d’acqua che presto li avrebbe inghiottiti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: