(Ansa)
Il Teatro Franco Parenti ospita oggi alle 18 l’incontro La battaglia culturale contro il terrorismo fondamentalista islamico, col politologo Olivier Roy (nella foto), uno dei maggiori esperti del nuovo jihadismo europeo; l’inviato di 'Il Sole24Ore' Alberto Negri; la guida del Museo del Bardo di Tunisi Hamadi ben Abdesslem; lo scrittore di origine libanese Hafez Haidar, candidato al Premio Nobel per la Pace 2016, da sempre impegnato nella costruzione di un ponte di dialogo tra le sponde del Mediterraneo. È il secondo appuntamento del ciclo 'La crisi dell’Europa e i Giusti del nostro tempo', col patrocinio dell’Università degli Studi di Milano e della Fondazione Corriere della Sera, organizzato da Gariwo in collaborazione con il Teatro Franco Parenti-Accademia del presente, per avviare una riflessione collettiva sulle grandi questioni morali e politiche dei nostri giorni, col contributo di intellettuali, studiosi, giornalisti e testimoni.
Per Olivier Roy, il grande orientalista e politologo francese, «occorre deculturalizzare la lettura del jihadismo europeo». «Nelle biografie dei giovani radicalizzati – sostiene – si riconosce la rivolta generazionale come chiave interpretativa: non è una radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del radicalismo». In Francia i terroristi sono al 90% seconde generazioni o convertiti: «Hanno rotto i ponti con i genitori e con tutto ciò che rappresentano in termini di cultura e religione». Il docente, che ha appena pubblicato Le djihad et la mort (presentato su queste pagine da Lorenzo Fazzini lo scorso 18 dicembre), interverrà oggi al una conferenza del ciclo 'La crisi dell’Europa e i Giusti del nostro tempo', organizzata a Milano da Gariwo.
Perché sostiene che la radicalizzazione non è un problema culturale?
«Vi è una tendenza errata a culturalizzare il terrorismo, interpretandolo come scontro tra la cultura occidentale e quella musulmana. Il problema è il contrario: è la deculturalizzazione del religioso che porta alla radicalizzazione. L’ideologia terroristica non è radicata in una cultura storica musulmana. La maggior parte dei terroristi non arriva da un percorso religioso, ma ha alle spalle la vita ordinaria dei giovani: bevevano alcol, frequentavano locali notturni, fumavano hashish ed erano nel 50% dei casi piccoli delinquenti. Ci si accorge che questi giovani vivono una rottura con tutta la società, sia quella dei genitori, sia quella occidentale contemporanea. Emerge il ruolo del Web: è lo spazio dei giovani, senza autorità, senza trasmissione generazionale, luogo dell’individualismo, dove si ricostruisce una comunità di simili».
Chi si radicalizza?
«Giovani occidentalizzati, non sono i rappresentanti di una società musulmana tradizionale. La loro lingua (il francese, il tedesco, l’inglese), il modo di vivere, il rap, lo stile con cui vestono, lo slang, tutto questo è occidentale: sono immersi nella subcultura giovanile della loro generazione. Quando si radicalizzano, lo fanno secondo un modello religioso che è completamente staccato sia dalla cultura tradizionale, sia da quella occidentale. Tra i terroristi sono quasi del tutto assenti le prime generazioni e non ci sono terze generazioni, pur in Francia numerose. Il 90% dei jihadisti appartiene a due categorie: seconde generazioni e convertiti».
Cosa li accomuna?
«L’adesione a una forma religiosa che è di completa rottura con la cultura e la religione dei genitori. Diverse seconde generazioni aderiscono all’Islam salafita, che rifiuta il concetto di cultura. Manca dunque la trasmissione di una religione culturalmente integrata. Non vi è infatti una radicalizzazione dell’Islam, ma un’islamizzazione del radicalismo, si islamizza il proprio disastro personale, la propria rivolta contro la società. Per combattere il terrorismo, al contrario occorre riportare il religioso nel culturale».
Perché usano l’Islam come bandiera?
«Per le seconde generazioni scegliere l’Islam radicale vuol dire presentarsi come più musulmani dei genitori, in una dimensione quasi edipica che rifiuta i padri come maestri. Anche per i convertiti, che spesso vengono dalla campagna francese, la chiave interpretativa è generazionale: lo sfregio peggiore che una figlia può fare a dei genitori cattolici è convertirsi all’Islam e velarsi; se una ragazza aderisce al satanismo o al metal rock, i genitori lo interpretano come un peccato di gioventù, ma se opta per l’Islam è completamente persa. Inoltre, per apporre la firma sanguinaria alla loro rivolta, i giovani scelgono la causa jihadista perché oggi, sul mercato, è l’unica al tempo stesso globale e radicale. L’ecologia non è più una causa radicale, l’estrema sinistra non è più globale: i No Tav, per esempio, sono radicali ma locali. Con un linguaggio moderno, Daesh è riuscito a costruire una grande narrazione basata su un’estetica della violenza che affascina molti giovani; infatti nel terrorismo degli ultimi anni il suicidio è sempre più centrale».
La Francia appare sotto attacco. E l’Italia?
«Ha una particolarità sociologica; ci sono meno seconde generazioni e la popolazione musulmana italiana è più eterogenea: non vi è una provenienza prevalente (il Maghreb per la Francia, la Turchia per la Germania) e questo porta a un’integrazione più rapida. Sono stupito dalla rapidità con cui gli imam in Italia passino alla lingua italiana. A differenza di Francia, Germania, Belgio e Olanda, tra gli immigrati di prima generazione in Italia emergono già dei leader spirituali, come l’imam di Firenze, un intellettuale, che assumono il ruolo di guida nei confronti dei giovani. Quanto ai convertiti, che in Italia hanno una lunga tradizione di adesione alle correnti sufi, appartengono a classi sociali elevate e quindi con una minore carica di radicalità. Inoltre il rapporto tra cultura e religione in Italia è più forte che in Francia: la laicità francese allontana la religione dallo spazio pubblico».
Come possiamo prevenire le radicalizzazioni?
«Occorre proteggere il terreno spirituale, riconoscendo la pratica religiosa nello spazio pubblico. Ad esempio nelle prigioni: in Francia, imam e preti devono essere chiamati dai detenuti per un incontro, lasciando invece spazio d’azione ad altri prigionieri radicali, autoproclamatisi imam, di rispondere alle domande spirituali. In Italia, invece, i sacerdoti hanno più libertà di accesso: va concessa la stessa possibilità a imam riconosciuti e moderati».
E il dibattito italiano sulle moschee…
Occorre che si possano costruire, siano riconosciute e rientrino nello spazio pubblico, facendo parte della vita della città. I radicali invece reclutano nei margini, nel segreto. Un buon accordo è quello firmato nel 2016 tra la moschea e il Comune di Firenze. Va nella giusta direzione anche l’accordo d’inizio febbraio tra il Ministero dell’interno e gli esponenti musulmani: non entra nel piano teologico, rispettando i principi dello Stato laico, ma pone il problema della lingua».