Carol M. Highsmith, “Freight train Seligman, Arizona”, 2017 - /Library of Congress/ CarolM. Highsmith Archive / Pubblico dominio
Il libro s’intitola Dell’andare in treno e altre coincidenze. Sottotitolo: Antologia a bassa velocità per passeggeri felici. L’ha pubblicato l’editore Ediciclo (pagine 136, euro 20,00) per la cura e la traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, con le illustrazioni di Luca Terenzi. La citazione la ricavo dalla lettera di Victor Hugo del 1837 alla moglie, che Romano Vecchiet riporta nella sua prefazione: «Ho fatto ieri il viaggio da Anversa a Bruxelles e ritorno (...). La velocità è inaudita. I fiori ai bordi del campo non sono più dei fiori, sono invece delle macchie o meglio dei raggi rossi o bianchi; non ci sono più dei punti, ma solo dei raggi; i campi di grano sono grandi capigliature bionde; le lucerne sono lunghe trecce verdi». Si tratta, se si vuole, d’una sorta di centrifugazione della realtà tra impressionismo e surrealismo: tanto per stare a due movimenti pittorici la cui storia coincide, pressappoco, con l’arco cronologico disegnato da queste pagine, che muovono dagli ultimi anni Sessanta dell’Ottocento con il racconto di Mark Twain alla seconda metà degli anni Venti del Novecento rappresentati da Una notte di Natale di Dino Garrone. Citazione che, per altro, ci consente subito una notazione: che il viaggiare in treno consista innanzi tutto in una destrutturazione e riarticolazione dello sguardo. Non senza aggiungere, osserva ancora Vecchiet, altri due aspetti strettamente connessi alla dimensione dell’andare in treno: l’esperienza d’un vasto campionario di tipi umani e, «nel riquadro del finestrino», quella sempre cangiante del panorama.
Ma andiamo con ordine e concentriamoci sulla scelta delle curatrici, le quali, accanto a tre donne (Matilde Serao, Grazia Deledda e Virginia Woolf), collocano nove uomini: oltre ai già citati Twain e Garrone, Arthur Conan Doyle, Guido Gozzano, Luigi Pirandello, Marcel Proust, Italo Svevo, H. G. Wells e Luciano Zuccoli. Tutti nomi blasonatissimi, se si escludono appunto Garrone e Zuccoli, i quali, da soli, avrebbero giustificato una sezione per il lettore meno attrezzato dedicata alla bio-bibliografia degli autori proposti, che però manca. Diciamo allora che il primo, stimato da D’Annunzio e brillantissimo allievo di Luigi Russo (con cui si laureò su Verga) morì di setticemia nel 1931 a soli ventisette anni, mentre il secondo fu notissimo all’inizio del secolo scorso, nell’ambito di quella che oggi definiremmo letteratura d’intrattenimento o di consumo, sino al punto da scomodare Renato Serra nelle celeberrime Lettere (1914), che lo ritrasse in una sorta di foto di famiglia accanto a Pirandello e alla Deledda (e alla stessa altezza), ma anche insieme agli altrettanto famosi e oggi dimenticatissimi Virgilio Brocchi e Carola Prosperi. Va aggiunto che i loro racconti sono forse la sorpresa del volume, là dove, nel caso di Notte di Natale, incontriamo un Garrone capace di coniugare certe oltranze da prosa d’arte («Il cielo andava imbiancandosi di chiarori infangati») con un senso di tetraggine e solitudine tutta novecentesca, quando invece Tu non sei tu di Zuccoli, lontanissimo com’è da qualsiasi inquietudine sperimentale, si lascia leggere con grande piacere per la trovata su cui fa perno la narrazione, e cioè l’accusa fatta da una giovane donna a uno scrittore, quella di essere un impostore che, per sedurla, si spaccerebbe quale autore del romanzo che le è tanto piaciuto.
Il treno di questi racconti così diversi l’uno dall’altro è di sicuro il pegno (o l’omaggio) tributato a una modernità che accorcia le distanze del mondo e che è ormai un dato di quotidianità acquisita: il referto non più alonato di mistero della vita che formicola ordinaria, anche quando si tinge di giallo, come nel racconto di Conan Doyle che ha come protagonisti Sherlock Holmes e Watson. Non sono, in effetti, il viaggio in treno e la detective novel la dimostrazione della democratizzazione del mistero? Quanto alle innumerevoli epifanie della vita, difficile dimenticare la ragazza della stazioncina nella «vallata nascosta al resto del mondo» da due montagne, che ci viene incontro dal brevissimo estratto della Recherche proustiana e che, nelle sue giornate, non vedeva mai nessuno, a parte per pochi minuti «le persone sedute su quei treni»: «Costeggiò i vagoni offrendo caffellatte ad alcuni viaggiatori che si erano svegliati». E poi: «Davanti a lei provai quel desiderio di vivere che rinasce in noi ogni volta che prendiamo di nuovo coscienza della bellezza e della felicità». Senza dire che si tratta di pagine di straordinaria filosofia dello sguardo: là dove, a seconda dei cambi di direzione, il paesaggio riquadrato nel finestrino cambia, passando da una visione dell’alba incipiente a quello della notte ancora profonda. Chiudo con Matilde Serao e Grazia Deledda: la prima, col suo straordinario fiuto giornalistico, che parla anche di donne, ma soprattutto di Jaffa sulla linea che porta a Gerusalemme; la seconda che racconta il ritorno a casa nell’ultimo tratto di treno dal golfo degli Aranci a Nuoro (dodici ore e mezzo d’inferno), tra desolazione, silenzio, «bellezza superba, talvolta quasi feroce» e fastoso azzurro del cielo. Ha trent’anni, ma c’è già tutto il suo rapporto con l’isola: amore grande e acuta insofferenza.