Ingrid Seyman - Frederic Lucano/Sellerio
Cosa significa essere normale? Questa domanda rappresenta l’esplorazione di un confine che Ingrid Seyman, giornalista e regista, ha toccato con il suo primo romanzo, La piccola conformista (Sellerio, 196 pagine, 15 euro), dove prova a offrire una prospettiva atipica nel raccontare il desiderio di volere essere come tutti gli altri. Domenica 31 ottobre alle 20 Seyman sarà a Palazzo Branciforte in occasione del Festival delle Letterature Migranti, per riflettere sulla scrittura femminile, che lei declina su un versante ironico, raccontando di Esther, bambina nata in una famiglia di sinistra negli anni ’70 a Marsiglia. La madre è un’anticapitalista sessantottina, il padre un ebreo francese nato in Algeria. Si aggiungono un fratello iperattivo e i nonni paterni nostalgici del passato nell’Algeria francese. La storia cambia ancora quando Esther viene iscritta in una scuola cattolica.
Nel suo romanzo la protagonista è una bambina che si sente sempre sbagliata. Cosa significa sentirsi fuori posto?
Prima di diventare madre credevo ingenuamente che i bambini tendessero a somigliare ai loro genitori. È un pensiero molto francese, la convinzione che ciò che si acquisisce sia più forte di ciò che è innato, e che l’educazione possa plasmare i bambini. Come mamma, mi sono resa conto di quanto sbagliavo, e oggi sono convinta che i bambini abbiano in sé una personalità forte, e molte volte inappropriata con quella dei loro genitori, ed è una cosa buona.
Esther mente perché si vergogna della sua famiglia. Questo è un problema di pressione sociale in molti adolescenti.
Penso che vergognarsi dei propri genitori quando si è adolescenti sia estremamente normale. Crescere è opporsi, mettendo in discussione tutto ciò che è stato insegnato prima. Si deve solo essere consapevoli che allontanarsi dai genitori, sfidarli o addirittura vergognarsi, sia una fase dolorosa ma necessaria di un processo di costruzione.
Attraverso la lingua Esther si ribella ai genitori. Nella prima persona del libro c’è il linguaggio delle ideologie dei genitori e una sua personale grammatica emotiva. Come si conciliano questi due aspetti? Crede che si parta dal linguaggio per cambiare le cose?
Per Esther, essere la narratrice di questa storia significa riconquistare il potere sulla sua famiglia, usando quello che considera il linguaggio dei suoi 'oppressori'. Usando la lingua dei suoi genitori, una lingua piena di ideologia, li costringe ad affrontare le proprie contraddizioni. Sono convinta del potere creativo del linguaggio. In questo senso, questo romanzo avrebbe potuto chiamarsi: 'Il mondo secondo Esther', perché riscrive (e quindi reinventa) la sua storia familiare.
Questa edizione del festival è al femminile, dedicata al sentimento e alla conoscenza letteraria, politica, scientifica e creativa delle donne. Che momento storico è per le donne?
Sono felice di vivere in questo momento di cambiamento radicale e sono estremamente grata alle donne che ci guidano, ormai da alcuni anni, per riconsiderare tutto ciò che è stato stabilito fino a oggi, sia in termini di parità professionale, di coppia, di educazione. Anche la mia vita è cambiata in modo incredibile negli ultimi anni: ho potuto decostruire un sacco di cose, e non sono più la stessa. Grazie a tutte queste donne, mi sento più forte, più consapevole del mio potere, oltre che della mia responsabilità di donna, amica, sorella e anche madre. La lotta per l’uguaglianza però è solo all’inizio. Dobbiamo continuare a lottare con orgoglio, energia e felicità.
Il festival riflette anche sulla scrittura femminile, aprendo il dibattito sui temi di genere e generazioni. Cos’è per lei la scrittura?
Continuo ad associare l’atto dello scrivere a un lusso: il lusso di ritirarsi dal mondo e dalla sua quotidianità. Lusso di vivere e far esistere un universo parallelo, ridere o arrabbiarsi con personaggi immaginari. Ed è per questo che non smetto mai di ricordare quanto costi a molte donne accedere a questo lusso, e a questa libertà.