Se parlate dell’ultimo scudetto del 2000 a un cinquanta-sessantenne laziale, quello si toglierà il cappello. Ma se provate solo ad accennare alla Lazio campione d’Italia del 1974, quegli stessi signori potrebbero scoppiare a piangere, dalla commozione. Vincenzo D’Amico non può che provare i brividi quando gli si chiede di ricordare quel primo storico tricolore di cui fu il più giovane protagonista in campo (27 partite e due gol, uno nel derby).La guida paterna Tommaso Maestrelli, a diciassette anni e mezzo lo fece debuttare in Serie B nella Lazio del presidente “Papà” Umberto Lenzini e due anni dopo era campione d’Italia. «Per i vecchi laziali c’è stato lo scudetto del ’74 e poi “l’altro”... La nostra era una squadra neopromossa che al ritorno in A si piazzò terza. La stagione seguente, a sorpresa, ruppe il dominio delle grandi sorelle del Nord. La Lazio del presidente Sergio Cragnotti (con cui ho lavorato sei anni) per investimenti miliardari e programmazione era nata per vincere. E ha vinto anche poco rispetto all’effettivo valore della rosa». Siamo già arrivati al 2000, al secondo scudetto laziale con Eriksson in panchina e all’ultima edizione della Coppa delle Coppe conquistata da Bobo Vieri e compagni. Stiamo parlando del poco romantico calcio postmoderno che ha smarrito il segno distintivo di quello di ieri, e quindi della Lazio del ’74: l’umanità. «Che era un calcio più umano te ne accorgevi al campo di Tor di Quinto quando a vederci allenare venivano in duemila. Gli allenamenti erano sempre aperti, mica come adesso che c’è questa moda ridicola di chiuderli perché altrimenti il “nemico ci spia”... Tutta questa segretezza e poi prima della partita le telecamere arrivano nello spogliatoio con i microfoni infilati nella doccia. Noi vivevamo a contatto con la gente e la città. I tifosi ci parlavano, ci confidavano i loro problemi e se si poteva dare una mano, a un amico come a uno sconosciuto, non la negavamo mai a nessuno». Generosità da campioni, all’interno di una squadra spaccata a metà: il clan di Chinaglia e Wilson da una parte, quello di Martini e Re Cecconi dall’altra.«Dopo quarant’anni mi piacerebbe mettere la parola fine a tutte le leggende metropolitane che sono circolate fino ad arrivare alla generazione dei miei figli, Matteo e Niccolò. A qualcuno ha fatto comodo farci passare per la “banda della Magliana” del pallone o dei pistoleri folli, mentre invece il nostro era sì un gruppo di ragazzi vivaci, ma composto da persone assolutamente per bene. Martini è diventato deputato. Di Re Cecconi si è sempre parlato, e a sproposito, della “finta rapina” (mai entrato in quella gioielleria gridando “mani in alto”) in cui è rimasto ucciso e mai abbastanza del fatto che fosse un campione e un ragazzo d’oro. Wilson è stato un libero moderno eccezionale, che se la giocava alla pari con quel galantuomo di Scirea. Quanto a Chinaglia, era l’anima della squadra. Per me è stato un fratello maggiore, mi chiamava “Golden”, ero il suo ragazzino d’oro... Giorgione era un buono che a volte ha peccato di ingenuità. A lui bastava fare “gò” – pronunciava così –, per diventare felice come un bambino a cui hanno regalato la nutella». Un bambino a volte un po’ duro, il “Long John”, eterno idolo della Curva Nord («Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia», intonano ancora i tifosi) che in quella stagione in cui divenne capocannoniere (24 gol) a San Siro pare che prese a “calci sul sedere” il giovane Vincenzino. «Un’altra leggenda da sfatare. Fu un calcetto al polpaccio, ma senza cattiveria e non perché non stessi correndo o avessi riso a un tunnel che gli aveva fatto Sandro Mazzola... Stavamo semplicemente perdendo 3-1 con l’Inter ed eravamo tutti un po’ nervosi». Uno dei quattro ko subiti dalla Lazio in quell’annata straordinaria, in cui figura un altro 3-1 al Comunale di Torino contro la Juventus. «Mattrel, Corradi, Garzena... Charles, Sivori, Stacchini. Quella è la prima formazione che ho mandato a memoria. Da piccolo ero juventino e il sogno era diventare un numero 10 come Omar Sivori».E invece, ironia della sorte, nell’estate del 1980 D’Amico si ritrovò in granata. «La Lazio aveva gravi problemi economici e io mi sacrificai accettando il Torino, che ai tempi lottava per lo scudetto. Ma l’estate dopo ero già di ritorno. Rinunciavo ai soldi, alla Serie A (la Lazio era in B) e alla Nazionale. Bearzot? Prima che diventasse ct avevamo un ottimo rapporto, poi un giorno gli ricordai che avevo esordito da ala sinistra e da quel momento non l’ho più visto né sentito». Porte chiuse a Coverciano per D’Amico, come poi per Manfredonia e Giordano. «Con Di Canio e Nesta sono stati gli ultimi grandi talenti cresciuti nel vivaio della Lazio. Oggi anche nelle giovanili la maggior parte sono stranieri. Quelli della mia generazione fanno fatica a riconoscersi in questa società. Lotito? Non ho mai avuto rapporti, né voglio averne e penso che la cosa sia reciproca. Amerò per sempre i colori della Lazio, la sua storia che è la mia, i suoi tifosi, ma questa non è più la mia Lazio. E come me la pensano così in tanti».È la nostalgia di una bandiera, del tifoso tradito, ma anche il giudizio secco dell’opinionista Rai di lungo corso. «La Rai per me è una “mamma”, come la Lazio, e a entrambe mi sono legato per sempre. Uno dei mali del calcio di oggi è proprio il fatto che non esistono più giocatori da “una maglia una vita”. È anche per questo, oltre all’invasione della tv, che la gente diserta lo stadio». Quarant’anni dopo il primo scudetto della Lazio, l’Olimpico non si riempirà neppure stasera per la gara contro i campioni d’Italia della Juventus. Una sfida preceduta dal tormentone dello “scansàmose”, ovvero il rischio che la Lazio non opponga resistenza per non favorire i cugini della Roma, come per i malpensanti fece contro l’Inter nel 2010. «Ma non scherziamo... Quella era l’Inter di Mourinho, la squadra del “triplete”, anche se non volevi ti faceva scansare per manifesta superiorità. Questa Juve di Conte sono tre anni che domina in Italia e ha otto punti di vantaggio sulla seconda, se la Lazio dovesse perdere penso che la prima cosa da “scansare” sono i sospetti di anti-romanismo». Un altro sentimento forte, la rivalità con i giallorossi, rarefatto e confuso da questo tempo liquido, in cui almeno certi amori, come quello per la Lazio del ’74, non finiscono. «Ogni volta che passo dalle parti di Tor di Quinto, avverto ancora quella bella sensazione di un tempo. Rivedo l’immagine dolce e saggia di Mastrelli che ci aspetta in campo. E noi, come compagni di scuola che arriviamo di corsa con la gioia e la convinzione di poter fare la storia. Ecco cos’è stata la mia Lazio...».