domenica 11 giugno 2017
Operiamo una cosmesi delle nostre biografie, ci mettiamo in mostra come sul mercato. Creiamo una distanza tra noi e la nostra storia: la crisi del racconto come scambio è la crisi del vivere comune
Un disegno di Doriano Solinas

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«Cambiare paesaggi in indirizzi / e malcerti ricordi in date fisse», rimava la poetessa Wisława Szimborska in una nota poesia sull’arte di scrivere un curriculum vitae. Già: in che forma raccontarsi, proporsi? In tempi di crisi del lavoro, molto si parla di come confezionare curricula. Negli Stati Uniti, i coach di “storytelling” insegnano (spesso con furbizia, rare volte con autentica passione pedagogica) quello che sembra essere ormai il solo punto decisivo: promuoversi. Valorizzare il percorso di vita intrapreso, così bene da renderlo un efficace prodotto di mercato. Operare una cosmesi delle nostre biografie tale che esse svolgano funzione pubblicitaria. Immortalarsi per incensarsi: farlo però non con attenta dovizia, bensì senza sottigliezza né pudore, come accade con le foto private postate su Facebook. Mettersi in mostra, nonostante tutto il disagio che ciò può provocare nel profondo di noi stessi.

In un curriculum, più dei lavori per i quali si è preparati e che si è in grado di svolgere, conta oggi trasmettere l’idea di essere aperti e bendisposti a impararne di nuovi. Le offerte sono poche, pochissime: l’importante è sapersi adattare – sinonimo di “sapersi riciclare”. I manuali di tecniche di autopromozione e buona riuscita nel mondo del lavoro insistono, sul punto: nel rutilante caos del mondo virtualizzato, dirimente è confezionare rappresentazioni di sé tutte incentrate sul presente.

Assemblare vite istantanee, pronte all’uso («meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto»: così, impietosa, la Szimborska). Racconti che ripercorrendo tappe e snodi di una vita intera, restano però in superficie. Che attingono a segmenti di biografia attraverso i quali il proprio passato acquista senso solo nel suo essere trampolino di lancio verso l’avvenire. Così una distanza si stabilisce tra sé e la propria storia. A forza di concentrarci sulla nostra immagine pubblica, anziché stagliarsi, quella va sfocandosi. «Scrivi come se non parlassi mai con te stesso, e ti evitassi», ancora la Szimborska.

Narrazioni trasversali, programmate: ed ecco l’io perdersi di vista. Intraprendenti promotori della merce/noi stessi, quanto restiamo a noi stessi fedeli? In un famoso scritto sulla figura del narratore, Walter Benjamin diceva dell’umiltà di cui questi deve dare prova. Chi racconta, è qualcuno che alla realtà sta accanto, discreto quanto arguto osservatore; che «sa orientarsi sulla terra senza avere troppo a che fare con essa». Lamentava, Benjamin (già allora, ed era il 1936) il decadere dell’arte di narrarsi l’un l’altro esperienze e rispettive rappresentazioni del mondo. La crisi di quella forma primordiale di scambio, il racconto, che è alla base del vivere comune. Assistiamo all’apoteosi di tale declino comunicativo oggi, nelle autorappresentazioni che ingolfano le vetrine del web. Non raccontiamo nulla. Stranieri a noi stessi, di noi niente trasmettiamo.

Anni fa, per un articolo che dovevo scrivere, intervistai nella hall di un grande albergo romano un nutrito gruppo di “storytellers” americani, e non solo. Donne e uomini impegnati in una lunga crociera durante la quale, tra una tappa e l’altra dei diversi scali, si intrattenevano raccontando. Storie: le loro storie. Chi fosse il pubblico, oltre ai compagni di viaggio di quella curiosa avventura professionale, a loro non interessava. Raccontavano per depositare un seme, una traccia (un “talismano”, Benjamin avrebbe detto). Incuranti delle reazioni, disinteressati agli effetti benefici del loro mutuo narrare. Reinventandosi, ma senza inventare nulla. Si sapesse farlo, a regola d’arte. Allora chissà, anche i curricula avrebbero migliori effetti, il mercato del lavoro tornerebbe a prestare attenzione ai singoli percorsi.

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