Marco Crespi mentre sprona le sue ragazze (Federazione Italiana Pallacanestro)
A Biella e Casale Monferrato, dove ha ottenuto due storiche promozioni in A1 (rispettivamente nel 2000-2001 e nel 2010-2011), ha lasciato un ricordo indelebile. Lo stesso a Siena dove, con una Mens Sana ormai a fine ciclo, arrivò a un soffio da un incredibile scudetto svanito a pochi secondi dalla fine contro Milano, contro la “sua” Olimpia dove è cresciuto e ha imparato a diventare allenatore grazie al lavoro di assistente di Mike D’Antoni e Boscia Tanjevic (con il quale vince scudetto e Coppa Italia) e in Nazionale, conquistando l’Europeo 1999 di Parigi. Esperienze incredibili, uniche, che ti rimangono per una vita. Chissà se Marco Crespi, ct dell’Italbasket femminile ci pensa ancora mentre corre macinando chilometri, la sua grande passione, «per sentire la bellezza di essere in solitario e di viaggiare con i pensieri». Di certo il pensiero corre a quanto fatto nell’ultimo anno con le sue ragazze, fresche di qualificazione agli Europei del 2019, primo passo verso Tokyo 2020, ma soprattutto balzate agli onori della cronaca per un bel gioco corale che ha conquistato tutti. Una qualificazione che ha avuto qualche strascico polemico per non aver concesso nell’ultima decisiva gara con la Svezia una standing ovation a Raffaella Masciadri: 38 anni, 12 scudetti e 192 presenze in azzurro. Crespi senza mezzi termini ha ammesso di aver sbagliato e di essere dispiaciuto, ma in quel momento l’importante era il risultato e farla entrare ad una manciata di secondi dalla fine sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti della campionessa.
Polemica chiusa e spazio per i ricordi di inizio avventura da ct.
Quando nel luglio del 2017 ho ricevuto la telefonata inaspettata del presidente Petrucci, mentre lo ascoltavo istintivamente pensavo “sì, mi piacerebbe davvero”... e in 48 ore sono diventato ct. Credo che la mia missione sia quella di giocare in maniera sfidante anche grazie al lavoro dei club, sempre importanti, e di aumentare sempre più il numero delle ragazze che giocano a basket.
Chi come lei, fin da piccolo, ha sempre detto di voler fare il coach di pallacanestro come pensa di abbattere i cliché legati alla pallacanestro femminile?
Ho sempre detto che da grande avrei fatto l’allenatore di basket e lo scrissi addirittura in un tema al liceo dal titolo “Fanatismi della nostra epoca”, dove provai a sostenere l’accezione positiva del termine fanatismo definendolo passione smisurata e dichiarando che la pallacanestro è un microcosmo dove non manca nulla per vivere felici, che ti insegna che nella vita per competere non puoi essere solo. Abbattere i luoghi comuni penso sia occasione di crescita senza nascondersi dietro scuse.
Quali sono i luoghi comuni?
Il basket femminile non ha la schiacciata, oggettivo, ma non per questo deve essere considerato un gioco di passaggi. La bellezza della sfida del tiro deve essere l’obiettivo di ogni giocatrice in ogni momento. Con la Nazionale una delle nostre regole tecniche è non tirare negli ultimi otto secondi del possesso. Obiettivo, quasi provocazione, per sentire quella sfida come prodotto collettivo e per non arrivare agli ultimi secondi quando anche per LeBron è difficile segnare. Sorpassare i luoghi comuni e pensare che ci sia un solo basket può sembrare una bella frase, copiare due giochi dei Celtics per la nostra Nazionale è invece più di un fatto.
Bilancio di un anno?
Questo primo anno con le ragazze è stato molto positivo, dopo il primo brutto ko con la Croazia mi sono confrontato con lo staff e le giocatrici. Ho privilegiato, come sempre, i colloqui individuali, ho cercato di allargare la loro visione e ora posso dire che abbiamo preso consapevolezza e sicurezza reciproca.
Il dialogo è la prima ricetta verso il successo nello sport e anche nelle aziende dove, quando non è impegnato a “studiare” zone e pick and roll, tiene con successo corsi di coaching?
Credo ci siano profonde differenze fra un gruppo e una squadra, che rappresenta un qualcosa con le sue gerarchie e aree di competenze. Il gruppo deve saper trasformarsi in squadra grazie alle esigenze del campo. Io dico sempre a chi alleno che il gruppo esce dallo spogliatoio e la squadra vince la partita in campo. Oggi si dice troppo spesso siamo un bel gruppo, invece si deve dire “siamo una vera squadra”. I colloqui individuali sono fondamentali perché spiego i motivi della scelta, quali saranno gli spazi che avranno in campo e quali saranno le loro responsabilità e i loro vantaggi. Dal mio maestro Tanjevic ho imparato a nutrirmi della passione per il gioco e a trasmetterla a chi alleno, creando una sorta di “scambio individualizzato” e facendo capire dove serve migliorare.
Grazie anche ai risultati della Nazionale il movimento femminile è in forte crescita e si punta in alto.
Io non ho la ricetta giusta, ma credo serva portare più gente alle partite e continuare con i progetti da me ideati insieme alla Fip, come “Ragazze in tiro” dedicato al fondamentale del tiro e “Contagio Azzurro” che ci consentono di evitare i tradizionali raduni e di lavorare invece a turno nelle palestre delle varie società con i loro tecnici, creando una sinergia fra tutti. Io stesso ho bisogno di essere contagiato.
Per vincere serve anche questo e lei prima di entrare in uno spogliatoio bussa sempre...
Lo spogliatoio è un luogo sacro, il luogo di chi gioca. Un allenatore deve saper ascoltare ed essere un riferimento per ognuno in modo diverso. Una sconfitta è sempre un grande dolore, ma ti deve far capire quali cambiamenti mettere in atto. Ogni vittoria e ogni sconfitta devono avere una loro precisa griglia di valutazione, non immaginate quante volte sono stato sconfitto da una vittoria che troppo spesso ti fa sentire invincibile.
Ora si guarda all’Europeo e a Tokyo 2020 con un altro sguardo?
Sì, a patto che ci si ricordi, come diceva Magritte, che i sogni non vogliono farvi dormire, ma svegliare.