Jean Francois Millet, “L’angelus” (1857). Parigi, Musée d’Orsay
La difesa, per non essere sopraffatto, e la cura, per trarne sostentamento: queste due azioni dell’uomo hanno modellato (e progettato) la natura. L’intervento è sempre stato sostenuto da un intento estetico, perché armonia è la parola che consente la vita. Un’armonia simbiotica che la modernità ha messo in crisi, sostituendola con sfruttamento e sopraffazione. Un numero crescente di persone oggi, da più parti, cerca nuove vie per ricostruirla, in una sintesi tra spazi e stili di vita capaci di riscoprire il senso profondo della parola “creato”. È questo il filo rosso dello speciale del numero di giugno di “Luoghi dell’Infinito”, di cui anticipiamo qui un estratto dell’ampio testo di Ermes Ronchi e Marina Marcolini. Tra le altre firme dello speciale: Enzo Bianchi, Maria Antonietta Crippa, Marco Romano,
Il rapporto tra uomo e natura è cambiato, in questi ultimi decenni, quanto e più del rapporto tra uomo e uomo. La sensibilità ecologica ha obbligato la teologia e l’esegesi a scavare di più. Ha chiamato tutti a occuparsi del degrado del creato come di un problema non accessorio, ma uno dei più gravi e urgenti, questione di vita o di morte. Ci è richiesta una metànoia; niente si può fare se non partendo da qui: da una conversione. Il primo racconto biblico della creazione è incentrato sull’atto creatore assoluto di Dio e narra il suo amore per la varietà, la diversità e la ricchezza della vita. Un Dio attento a ciascuna erba, a ciascun seme, a ciascun albero (Gen 1,29) – che ama la biodiversità, si direbbe oggi –, innamorato dei dettagli, con i quali compone la tela multicolore del creato. Il contrario della omologazione e sterilizzazione dei semi operate dalle multinazionali. Che impoveriscono il pianeta. Il secondo racconto narra l’ingresso dell’uomo nella storia, che è una storia di relazioni: inscindibilmente con Dio e con le creature. L’uomo è posto in un giardino, in una relazione che è speciale: ci sono fiori e gemme, pesciolini e pulcini, e l’uomo non vi ha lavorato per niente. Una divina anticipazione in attesa della venuta degli umani. Un dono. «Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,8). La Bibbia racconta di un Dio giardiniere, che ha un rapporto diretto con la terra ( adamà), la madre terra, per lavorarla, farla morbida nutrice di semi. L’azione creatrice di Dio è piantare alberi, fiori, giardini. E legami: l’uomo è dentro, in relazione, coinquilino. Diciamo che la terra è fragile e che perciò bisogna prendersene cura. Ma non è così. La terra non è un anima-letto fragile: è forte e fertile. Non ha bisogno di noi per mantenere i suoi cicli vitali. La vita si è evoluta per milioni di anni prima che l’uomo facesse la sua comparsa e potrebbe andare avanti per altrettanto tempo se la specie umana sparisse. Non è la terra in sé a essere bisognosa di cure, ma la terra considerata come ambiente vitale per l’uomo, come casa da abitare. Lasciata a se stessa, la terra diventa un ambiente inospitale. La natura non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo bisogno di lei. L’uomo deve custodire e coltivare la terra per trasformarla in casa: luogo dove trovare nutrimento, sicurezza, pace, bellezza; dove far fiorire l’umano. È questo che Dio comanda all’uomo in Genesi 2, donandogli un giardino che fornisce gli elementi indispensabili: l’acqua necessaria per mantenere la vita, il cibo – “alberi buoni da mangiare” –, e la bellezza – “alberi graditi alla vista”. Il giardino degli inizi non è una condizione perduta da rimpiangere, ma il progetto di Dio per la terra e per l’uomo, la meta cui puntare, la casa da edificare. Questo luogo non ha esistenza per se stesso, ma è figura di una relazione. Dipinge il paesaggio dell’alleanza. Il luogo dove l’uomo collabora con le altre specie viventi e non fa loro la guerra, dove mette a disposizione la sua creatività e intelligenza per accrescere la vita propria e degli altri viventi. È quello che oggi l’ecologia chiama partnership etica. La terra può essere una casa ospitale per l’uomo soltanto se l’uomo si impegna a custodire ciò che Dio gli ha dato in prestito, perché la terra non è dell’uomo. Noi apparteniamo alla terra ma la terra non appartiene a noi. Promuovendo la vita della terra, l’uomo promuove la propria vita. Facendo fiorire la terra, fa fiorire se stesso. Custodire il creato e coltivare l’umano non sono due questioni diverse, ma due aspetti della stessa. Meglio perciò parlare di custodia e coltivazione della vita. È la vita sotto attacco oggi, la vita in tutta la sua complessa rete di interrelazioni. Pensiamo all’immagine della donna incinta dell’Apocalisse, con il drago che le vuole divorare il bambino: è la vita minacciata. Ha scritto papa Francesco che «mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione» (Evangelii Gaudium, 215). Noi siamo natura. Il nostro corpo è composto di miliardi di atomi che sono appartenuti ad altre creature, siamo attraversati ogni giorno dall’aria, dall’acqua, dal cibo, che hanno compiuto lunghe migrazioni prima di giungere a noi. Invece che pensarci separatamente come esseri umani e natura, è più adeguato pensarci come una sola comunità di viventi. Prendere atto di questa interconnessione non è una mortificazione, può dare invece un senso di benessere, di pace e comunione. Siamo collegati come le vene del corpo, come corsi d’acqua confluenti, non solo con gli esseri del nostro pianeta ma con l’universo. Esistere è coesistere. Siamo abitanti insieme a tutti i viventi, tutti nella stessa casa comune, e non ce n’è una di riserva. O ci salveremo insieme o affonderemo insieme.