sabato 25 aprile 2020
Massimiliano Valerii, direttore del Censis: «Le epidemie sono sempre state portatrici di un nuovo linguaggio metaforico: il morbo estremizza le distanze. Attenti alla politica che se ne appropria»
Le distanze imposte dal Covid-19

Le distanze imposte dal Covid-19 - Reuters

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E se da qui in poi fosse l’immunità a contagiarci? Massimiliano Valerii lo lascia intendere senza ancora tradurlo in una forma lapidaria, nello stile ormai inconfondibile del Rapporto sulla situazione sociale del Paese stilato annualmente dal Censis, di cui l’intellettuale romano è direttore generale. Laureato in Filosofia alla Sapienza, Valerii è anche autore di un saggio pubblicato lo scorso anno da Ponte alle Grazie, La notte di un’epoca, nel quale la lezione di pensatori come Cartesio, Hegel, Kojève ed Ernst Bloch veniva invocata come alternativa all’insorgente «società del rancore», niente affatto debellata dal virus, sottolinea adesso Valerii, e pronta semmai a riproporsi sotto mentite spoglie. «Fin dall’antichità le epidemie sono sempre state portatrici di un nuovo linguaggio metaforico – osserva –. Ce lo ricordano Boccaccio, Defoe, Manzoni, Camus. Il motivo è molto semplice: l’epidemia accentua le distanza tra i poli opposti, li rende ancora più estremi l’uno rispetto all’altro».

Sta succedendo anche adesso?

«Certamente, solo che questa volta il linguaggio predominante non è più quello della letteratura o della filosofia, ma della scienza. Della medicina, per la precisione. In brevissimo tempo il discorso pubblico è stato egemonizzato dalle dichiarazioni di virologi ed epidemiologi, con conseguenze immediate ed evidenti: il distanziamento sociale, la quarantena. Provvedimenti necessari nella loro durezza, sia chiaro, così come è necessario, in vista della cosiddetta Fase 2, che si ascolti il parere degli economisti, degli esperti del lavoro e della finanza. Anche se ancora non siamo in grado di quantificarlo, sappiamo che l’impatto sul tessuto sociale sarà molto forte, che la disoccupazione è desinata a crescere e che nuove forme di povertà si manifesteranno nei prossimi mesi. Finora, insomma, la pandemia ha parlato la lingua della medicina e dell’economia».

Era inevitabile, non crede?

«Sì, ma non può bastare. Ora è la politica che deve prendere la parola. Anzi, ha già iniziato a farlo, in certa misura. Ed è un passaggio delicatissimo, che presenta molti rischi».

Quali?

«Il maggiore, a mio avviso, è che la terminologia fin qui adottata in sede medico–scientifica si traduca in metafora politica o, peggio ancora, in categorie politiche. Mi riferisco alla contrapposizione tra contagiati e immuni, che ben prima del diffondersi del coronavirus era stata fatta propria dall’economia (ricorda quando si temeva che la Grecia “contagiasse” gli altri Paesi dell’Unione Europea?), con ricadute ben riconoscibili anche in ambito politico. La seconda Guerra Fredda, la guerra dei dazi, la strategia dei muri, il ritorno del nazionalismo: sono segnali che abbiamo cercato di interpretare negli anni scorsi e che, sotto l’urto del Covid– 19, vengono ad assumere un significato ancora più inquietante».

Teme la rivalsa degli immuni sui contagiati?

«Temo che non ci si renda conto del fatto che siamo a un bivio e che, in un frangente così delicato, una strada non vale l’altra. Da una parte la politica potrebbe rifugiarsi nella logica dell’immunità a ogni costo, arrendendosi all’equazione che fa dell’altro un nemico, sempre e comunque. Se così accadesse, non si farebbe altro che cedere a una mentalità che serpeggiava già in precedenza e che, non a caso, ci aveva portati a coniare l’espressione di «società del rancore». Il punto è che, se guardata con obiettività, l’emergenza in atto, ci spinge in direzione contraria».

A che cosa si riferisce?

«All’altro sentiero che nasce dal bivio, all’altra strada che potremmo seguire e che, ripeto, proprio il coronavirus ci sta indicando. Ci troviamo davanti a una criticità globale, che su scala globale chiede di essere affrontata. Gli strumenti di cui può disporre uno Stato, per quanto sovranamente incardinato su sé stesso, non sono sufficienti per gestire un dramma di queste proporzioni. Ora come ora, fare appello alla solidarietà nazionale è l’atto più razionale e conveniente».

Perché si fa tanta fatica a imboccare questa strada?

«Per diverse ragioni, la principale delle quali consiste forse nel fatto che la pretesa di autonomia nazionalistica poggia su un sentimento generalizzato di individualismo o, se si preferisce, di autoconsistenza dell’io. Trasferita in ambito politico, questa illusione di onnipotenza prende la forma di sovranismo, giustifica la Brexit, spiega la deriva autoritaria di un Paese come l’Ungheria. Tutti elementi che indeboliscono l’Unione Europea proprio nel momento in cui l’Unione stessa dovrebbe essere più forte».

C’è addirittura chi proclama la fine della globabilizzazione…

«Ma in questo modo si confondeno i piani. Il più delle volte i profeti di sventura non fanno altro che denunciare l’inconsistenza di quello che è stato, o avrebbe potuto essere, il loro contributo a un processo del quale denunciano i difetti senza ammetterne i benefici. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, il Pil mondiale è cresciuto del 124%, il flusso delle esportazioni è quadruplicato, gli investimenti esteri sono cresciuti di sei volte, le persone che vivono sotto la soglia di povertà sono passate dal 36% al 10% della popolazione del pianeta. Mai, nella storia, abbiamo conosciuto progressi così grandi concentrati in un periodo così breve. La questione da affrontare sarebbe invece un’altra: al ridursi delle distanze a livello internazionale è corrisposta la crescita delle disuguaglianze all’interno dei singoli Paesi. Che sia urgente introdurre correttivi è indubbio, specie per quanto riguarda la conflittualità sociale e la tutela dell’ambiente, ma è dai risultati che occorre ripartire. Altrimenti si cade nel cosiddetto “paradosso di Bauman”, ovvero in una critica del neoliberismo che, non riuscendo a sviluppare una controproposta efficace, consegna a sovranisti e nazionalisti lo scontento di quanti si sentono dimenticati o traditi dalla globalizzazione».

Quali ripercussioni vede per l’Italia?

«Molto dipende dal fattore tempo, da quanto durerà ancora questa sospensione del principio di realtà alla quale il Paese si è adeguato nel momento in cui ha compreso che il coronavirus non era una minaccia per la lontana Cina o per poche “zone rosse”, ma per l’intera comunità. Di sicuro, già adesso stiamo pagando un prezzo molto alto. Ed è per questo che dovremmo cominciare a progettare il futuro».

Come?

«Nutrendo e condividendo la speranza, che oggi più che mai si configura come esercizio di razionalità e come assunzione di responsabilità».

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