Il teologo tedesco Erik Peterson nel 1938 - WikiCommons
Come una sorta di manzoniano Carneade, il nome di Erik Peterson reca con sé più il sapore del sentito dire che la consapevolezza della conoscenza. Non a caso sfugge all’elenco dei grandi della teologia del Novecento, nonostante sia stato un interlocutore privilegiato di Karl Barth che lo definì un Außenseiter, un outsider diremmo oggi prosaicamente. Pesò sulla marginalità, forse, l’essere stato uno dei non molti teologi laici e la diffidenza rivolta a un convertito dalla Chiesa evangelica alla Chiesa cattolica, conversione avvenuta, lui quarantenne, nel 1930. Allontanatosi dalla Germania in seguito alla conquista del potere da parte del partito nazionalsocialista e in polemica con la posizione assunta in favore del Terzo Reich da Ludwig Müller al sinodo della Chiesa evangelica del settembre del 1933, Peterson cerca riparo a Roma. Sulle sponde del Tevere cresce, con la moglie, una famiglia di cinque figli e lavora, fino a poco prima della morte, avvenuta ad Amburgo nel 1960. L’impegno accademico lo svolge presso il Pontificio Istituto di archeologia cristiana, incarico che nel 1947 si trasforma con l’assegnazione di una cattedra. Eppure i frutti del lavoro non sempre riescono a sottrarlo alle difficoltà economiche dovute alla numerosa famiglia. Malgrado l’apparente scarsa fortuna intellettuale, Peterson non lascia traccia solo nel pensiero del teologo di Basilea. Raccoglie stima e ammirazione da parte del cardinale Jean Daniélou, da Yves Congar senza dimenticare l’attenzione prestatagli da Joseph Ratzinger. Peterson non manca nemmeno di raccogliere il riconoscimento di Jacques Maritain che, nell’introduzione alla versione francese di Die Kirche aus Juden und Heiden, scriverà di lui: «Questo esegeta è un uomo, e di che qualità generosa; questo professore di teologia ha delle antenne che non sono quelle di un professore, ma di un’anima sempre alla ricerca del polline della verità». La sua è un’influenza che, seppur poco visibile, ha continuato ad agire. Non a caso Giovanni Filoramo non esita a sottolineare come «i suoi studi abbiano favorito la rinascenza patristica che conoscerà il pensiero cattolico nel secondo dopoguerra; la sua attenzione per le origini giudaiche del cristianesimo ha contribuito agli studi sul giudeo-cri- stianesimo; non per ultimo, Peterson ha prestato una grande attenzione allo gnosticismo, al manicheismo e all’encratismo ». Nonostante però l’imponente lavoro di Peterson tocchi un ampio ventaglio di ambiti di ricerca che spaziano dall’archeologia alla patristica, dalla storia della Chiesa all’agiografia, dalla mistica alla liturgia fino all’esegesi neotestamentaria, il suo nome è di frequente associato a quello di Carl Schmitt, il cui pensiero non ha mai cessato di contrastare. Per Peterson, in polemica con la Teologia politica del giurista renano, c’è infatti una radicale incompatibilità tra la teologia di ispirazione cristiana e la politica. Lo scarto tra Regno di Dio e storia corre sull’abisso escatologico che separa il cristianesimo dalle sue possibili strumentalizzazioni politiche. Peterson lo argomenta nel suo libro più celebre, Il monoteisimo come problema politico, scritto nel 1935 e oggi purtroppo irrecuperabile nelle librerie italiane. Riflessioni non arbitrarie, quelle di Peterson comunque, ma frutto delle sue ricerche. Pioniere degli studi sulle esperienze ascetiche del cristianesimo primitivo, attingendo a un cospicuo bagaglio documentale e col rigore storico- filologico che lo contraddistingue, Peterson porta alla luce anche nei suoi studi storici, e non solo nei suoi trattati teologici, il messaggio ascetico ed escatologico custodito dal cristianesimo. Lo provano, tra gli altri, Qualche osservazione sugli inizia dell’ascesi cristiana e La nave come simbolo della chiesa nell’escatologia, confluiti nel poderoso Chiesa antica, giudaismo e gnosi (pagine 640, euro 74,00), appena dato alle stampe da Paideia con una accurata introduzione di Lester L. Field, Jr. Uscito originariamente nel 1959, il volume raccoglie ventitré saggi pubblicati tra il 1944 e il 1958. Se all’apparenza la costituzione composita del testo può risultare ostica, essa al tempo stesso riflette la postura teologica di Peterson. Il teologo non avrebbe potuto pensare questo lavoro, definito da alcuni studiosi “un laboratorio teologico”, alla stregua di un’opera definitiva. L’avrebbe impedito non solo la diffidenza da lui nutrita nei confronti dell’idea di sviluppo storico ma anche l’idiosincrasia rivolta alle concezioni sistematiche della teologia, inclini a forzare le evidenze in un’unica verità. Le tematiche affrontate da Peterson sembrano rivelare un disinteresse nei confronti della realtà che lo circonda, e proprio quando l’Europa brucia. Eppure il lavoro di questo torno d’anni del teologo e studioso di Amburgo andrebbe, forse, letto in una diversa prospettiva. Le sue convinzioni teologiche maturano immerse nell’atmosfera di crisi che pervade il Vecchio Continente durante il primo Dopoguerra del secolo scorso. Se all’apparenza stride il disinteresse coltivato per problemi e questioni a lui contemporanei, in realtà questa distanza dipende dalla sua esperienza di fede, di cui è riflesso anche la polemica condotta con Schmitt. L’insistere sulla dimensione escatologica del cristianesimo sottolineando che l’annuncio cristiano è in verità annuncio della fine, lo porta a considerare i cristiani come pellegrini in cammino verso la Gerusalemme celeste e non alla ricerca della sua parodia storica. Espressione di questa esperienza di fede sono non solo i suoi trattati anche ma anche le ricerche storico-religiose contenute in Chiesa antica, giudaismo e gnosi da cui emerge una dimestichezza senza pari con le fonti patristiche greche e latine, apocrife, ellenistiche dei primi secoli dell’era cristiana che permette a Peterson di ricostruire la complessità del mondo in cui il cristianesimo si diffuse alle sue origini.