Un ebreo ortodosso impegnato nella lettura - Epa/Darek Delmanowicz
Ecco un altro tassello del grande progetto di traduzione in italiano del Talmud babilonese, intrapresa dal rabbinato italiano con il sostegno di importanti istituzioni accademiche. È appena uscito infatti il trattato che porta il titolo Betzà edito da Giuntina (pagine 476, euro 55,00), termine ebraico che significa 'uovo', perché si apre con una lunga e complessa discussione tra la scuola di Hillel e la scuola di Shammai se un uovo deposto in un giorno festivo si possa mangiare o meno. Si può immaginare che qualcuno comincerà a scuotere la testa. Eppure se una tradizione religiosa autorevole e antica studia e discute per secoli una questione apparentemente così banale e semplice, un caso della prassi quotidiana (in una società contadina assai lontana dalla nostra), e se prende sul serio gli infiniti commenti che tale questione ha suscitato, significa che sotto la superficie c’è assai più dell’edibilità di un uovo. In breve si potrebbe dire che è in gioco l’osservanza di uno dei dieci comandamenti, il quarto della lista biblica, la santificazione dello Shabbat e, per estensione, di tutte le feste comandate dalla Torà. In esse, come avveniva la domenica anche nelle società contadine di cultura cristiana fino a pochi decenni fa, non si deve lavorare. Nel mondo ebraico anche accendere un fuoco per cucinare è nel novero dei lavori che non si fanno durante il Sabato (pertanto si cucina prima). Ma durante le altre feste? E se i giorni festivi sono consecutivi o precedono il settimo giorno? I maestri di Israele hanno permesso in quei giorni chiamati Yom Tov di cucinare, perché la Torà lo permette. E in tal modo il rigore tipico dello Shabbat non è applicato; non di meno per compensare e preservare la sacralità della festa occorre mettere limiti a quegli stessi permessi. Da qui la ricerca di criteri che valorizzino la gioia di ogni giorno festivo ma che al contempo salvaguardino la differenza sia tra le feste e i giorni feriali, sia tra le feste e lo Shabbat. Il trattato Betzà si occupa di stabilire questi criteri che fanno la differenza nella vita quotidiana delle persone che osservano la Torà. Stabilire cosa è permesso e cosa non lo è equivale a porre un confine, a fissare un limite nel nostro uso del mondo. Come spiego spesso ai miei studenti, la Torà altro non è che un manuale per un buon uso del mondo, un uso secondo la volontà divina. Dietro ogni norma e ogni legge c’è una ratio, o meglio una sapienza tesa a elevare la nostra vita naturale a un livello di consapevolezza più alto, a un grado etico-religioso che impedisca ogni uso scriteriato del mondo e freni quella hubris nelle relazioni che sta alla base di tutte le ingiustizie, pubbliche e private. La discussione sull’uovo (e sulla gallina) riflette questo studio delle norme che elevano l’essere umano dal piano di mero consumatore al piano di consapevole co-creatore del creato nella sua complessità. Complesso è il miglior aggettivo per definire questo volume, che anche in traduzione è assai ostico per i non iniziati. I trattati del Talmud non sono romanzi o saggi scientifici, né vanno letti da soli; sono densi canovacci che andrebbero studiati con l’ausilio di un maestro o di un esperto. Betzà in particolare presuppone una certa conoscenza della Torà e dell’halakhà, ossia la normativa sviluppata nel corso della storia dai rabbini per meglio comprendere il testo biblico e osservarne i precetti. Ora, chi avrà la pazienza di scavare in queste pagine troverà che il rigore logico delle discussioni (che sono vere dispute d’accademia) non è mai fine a se stesso, ma ha sempre lo scopo di aiutare le persone a vivere pienamente il tempo della festa, il riposo, le gioie della famiglia e l’amicizia, godendo di una libertà interiore che va protetta proprio dagli oggetti di consumo e di uso quotidiano. Porre una distanza tra noi e tali oggetti (si pensi al cellulare o alla tv) diventa quasi una condizione sine qua non per (ri)guadagnare quella libertà e godere la qualità delle relazioni. Di questo, in ultima istanza, discutono i maestri di Israele, i quali sanno che l’osservanza dei precetti ha sempre lo scopo di elevare la qualità etica e spirituale della vita. Certo, il linguaggio del Talmudnon è il nostro e anche in italiano si fatica a seguire il filo delle dispute rabbiniche: analisi di parole e versetti, ipotesi, obiezioni, contraddizioni, domande e ancora domande. Inoltre i maestri rifuggono dal dare risposte da catechismo. Vogliono capire e far capire, andare a fondo, eviscerare gli argomenti pro e contro, al prezzo talvolta di non arrivare a un’unica e definitiva conclusione. Sta proprio qui l’unicità del grande codice talmudico, così estraneo alla mentalità occidentale e tuttavia così carico di intuizioni e verità sul nostro stare al mondo. Ci vuole umiltà per entrare in questo codice, non la sbrigativa smania di sapere tutto, magari 'stando su un piede solo'. E ci vuole forse quel che rabbi Shimon ben Laqish diceva dello Shabbat (alla pagina di Betzà 16a): all’inizio di quel giorno, ossia il venerdì sera, Iddio benedetto dà un’anima aggiuntiva all’essere umano e poi all’uscita dello Shabbat, il sabato sera, gliela toglie. Forse, anche per capire perché un uovo deposto in giorno festivo non può essere mangiato, come sostiene la scuola di Hillel, ci vuole un’anima supplementare. O almeno una scintilla della sapienza di Shimon ben Laqish.