Anish Kapoor, “Shooting Into the Corner”, 2008-2009 - .
Questa antologica (molto ampia, forse fin troppo) di Anish Kapoor, curata da Taco Dibbits alle Gallerie dell’Accademia a Venezia, è la prima mostra dell’artista anglo-indiano in un museo italiano. Ad ospitare l’esposizione fino al 9 ottobre è anche un altro storico luogo, Palazzo Manfrin, legato a quello del Ponte dell’Accademia da una storia comune attraverso la collezione di dipinti che la famiglia Manfrin raccolse nel XVIII secolo, una ventina dei quali è andata a costituire uno dei nuclei fondamentali (comprende La tempesta di Giorgione) delle Gallerie dell’Accademia.
L’artista in passato ha confessato che sono state tre le scoperte che hanno segnato la sua carriera. Prima il rendersi conto del potere dei pigmenti, della loro capacità di modificare la lettura di una forma. Poi le immense potenzialità del vuoto. Infine la forza della superficie riflettente con cui crea quella che si potrebbe definire una variazione interattiva sul tema dell’ambiente e del paesaggio. In ogni caso Anish Kapoor è sempre stato attirato dalle ambivalenze, dalle dualità e fin dall’inizio del suo percorso ha indagato intorno al concetto di ambiguità. Il pieno e il vuoto, la luce e l’ombra, il visibile e l’invisibile, il maschile e il femmini-le, l’effimero e il durevole. Realtà, però, mai nettamente distinte, bensì complici, complementari, integrate secondo il pensiero orientale dell’equilibrio e dell’unità degli opposti. Le sue sculture misteriose e semiorganiche – forme archetipiche che sembrano essersi generate da sole («voglio negare la presenza dell’artista, andare oltre il gesto») – sono meditazioni di natura rituale, nel tentativo di vedere a fondo proprio le cose che sfuggono lo sguardo, vicine al buddhismo e alla filosofia zen.
A differenza delle generazioni di scultori che hanno modellato l’illusione della vita infondendo nel marmo le qualità flessibili della carne, Kapoor crea opere che non rinunciano alla loro identità materica. Le sue manipolazioni mutano invece gli aspetti della dimensione e concretezza dell’opera: la massa si vaporizza, la consistenza si dissolve, il colore si sprigiona, la luce è vivida. Come quella prodotta da Sky Mirror (2006), grande parabola specchiante collocata nel cortile delle Gallerie dell’Accademia all’inizio del percorso espositivo. Che non segue un andamento cronologico, ma mischia le carte proponendo una campionatura di opere recenti o inedite insieme ad altre che hanno segnato i momenti cruciali della ricerca dell’artista.
1000 Names, per esempio, delicato lavoro degli anni 70 sull’intrinseca illusorietà dei pigmenti, allestito in modo un po’ defilato, ma opera emblematica dello scambio di ruoli tra materia e colore. Infatti i lavori di Kapoor si muovono su un territorio dai confini labili, incerti, in cui la percezione viene indagata in tutte le sue possibili manifestazioni, comprese quelle che rendono più insicuro e malfermo il nostro rapporto con la realtà, perché evidenziano la precarietà dei nostri presunti equilibri, psichici e fisici. È la sensazione che si prova di fronte al recentissimo Pregnant White Within Me (2022), gigantesco rigonfiamento che dilata l’architettura dello spazio espositivo, o al cospetto delle sculture nere (il nero fa parte della selezionata gamma di colori che l’artista utilizza insieme al blu, al rosso, al giallo e al bianco) realizzate con il Kapoor Black, un materiale nanotecnologico innovativo capace di assorbire quasi il cento per cento della luminosità.
A Palazzo Manfrin si è accolti dalla monumentale Mount Moriah at the Gate of the Ghetto (2022), informe protuberanza di silicone e pittura che dal soffitto dell’androne si espande fin quasi a toccare il pavimento. Altri sono i lavori giganteschi, come Symphony for a Beloved Sun( 2013) che occupa l’intero ambiente di quello che un tempo doveva essere il salone nobile del palazzo, con un allestimento che vede un enorme sole rosso sostenuto da una elaborata impalcatura e circondato da attrezzature da cantiere, mentre il pavimento è tappezzato di blocchi di cera rossa.
Poi è la volta di una serie di opere specchianti che capovolgono e distorcono le aspettative del visitatore, e da una serie di lavori recenti tra cui un gruppo di dipinti realizzati nel corso degli ultimi tre anni. Opere che trasmettono fascinazione e repulsione e manifestano quell’attenzione al corpo che ha sempre rappresentato una costante dell’opera di Kapoor. Un rosso cupo domina questi lavori, sia che esso rimandi a ferite, ad aperture e squarci o che suggerisca la materialità organica di tessuti interni: una dirompenza che risale a una tradizione che arriva da lontano. Da due dipinti, in particolare, che hanno continuato a ripresentarsi di fronte all’immaginazione di Kapoor: uno è il Punizione di Marsia di Tiziano come simbolo di violenza e pericolo e l’altro è la Discesa al Limbo di Mantegna che con questo quadro parla di morte e nascita, di inizio e fine.