«Guardi, quando penso che per vivere avrei potuto dover scrivere canzoni anche per forza non sento proprio nessun rimpianto per le mie scelte. Un artista deve obbedire solo a quanto sente dentro, e sono contento di questa mia "seconda" vita che mi fa parlare delle canzoni al passato». Sorride, Riccardo Cocciante, al chiedergli se fosse un
lapsus quel suo «Quando facevo le canzoni» detto a tradimento durante la nostra chiacchierata. Già, perché Cocciante da una decina d’anni a questa parte non è più un cantautore. Intendiamoci,
Margherita, Poesia, Bella senz’anima o
Cervo a primavera restano là, intatte: ma a rappresentare ormai una "prima" vita artistica di Cocciante. Dal 1998, quando
Notre Dame de Paris debuttò a Parigi, Cocciante è un compositore. Senza rimpianti: «Sono tornato libero».
Madre francese, padre italiano, nato in Vietnam: agli inizi l’ha aiutata avere due culture di riferimento?«Molto. È qualcosa che dà tanto. Ho assorbito da due mondi: l’attenzione al testo degli
chansonnier francesi e la melodia in primo piano della nostra tradizione. Così potei propormi fuori dagli schemi del pop per ballare, ma senza appesantire la musica».
Che attenzione c’era per i giovani, nell’Italia e nella Francia dei primi anni Settanta?«In generale, si investiva di più; nel mio caso, non venni accettato né qui né là… Però l’Italia mi aprì le porte per prima. E dandomi tempo di crescere».
Oggi è vero che l’Italia è meno attenta di allora?«Manca attenzione a chi sperimenta, alle "cantine", a quando si fa crescere un pensiero nuovo. Sanremo sembra indispensabile, ma ci passa solo la musica commerciale. In altri Paesi poi il pubblico è educato ad ascoltare, non dimentica i suoi miti. Ed esistono luoghi pensati apposta per suonare musica».
Anche per tutto questo lei ha preferito abbandonare una carriera "pop" di successo e cambiare strada?«No. L’ho sempre pensato, che se avessi trovato un modo diverso di esprimermi mi sarei ritirato. Non si può invecchiare in modo credibile nel pop, tantomeno con la routine delle industrie. L’opera popolare mi ha permesso di completarmi cambiando ruolo e sfruttando quanto appreso sulla forma canzone. Perché la base è restata quella. Mi manca un poco solo il pubblico: che però rincontro in concerti-evento».
Ma da quand’è che iniziò a mettere melodie nel cassetto che ha poi aperto per "Notre Dame de Paris"?«Da sempre. Compongo senza pensare mai all’uso di quanto scrivo. Catalogo gli spartiti: arie, canzoni… Ad un certo punto le arie sono servite. Ma senza l’obiettivo di creare una nuova forma d’arte. Anche questo è stato raggiunto scrivendo, ricordando che non sono americano, che conosco la lezione del melodramma e che però era tempo di tornare a parlare alla gente. Come l’opera lirica non fa più e il musical non può fare con noi mediterranei. La canzone era il mezzo giusto per riuscirci con eleganza».
Così ha cambiato mestiere: mantenendo gli attrezzi…«E coi discografici francesi che dicevano: "Non funziona". Storia che si è ripetuta in Italia. Quando si vuole cambiare bisogna combattere, sempre».
Ne è valsa la pena anche in termini pratici?«Faccia lei:
Notre Dame è stata a Mosca due anni, in Cina torna, a Londra siamo stati un anno e mezzo.
Il Piccolo Principe ha avuto critiche trionfali, Giulietta e Romeo 400mila spettatori in un anno».
Quindi Cocciante non tornerà alla sua "prima" vita?«Beh, sto già scrivendo altre opere… Dischi? Ne farò solo se ne avrò voglia. E se potrò farli tenendo la mia ispirazione davanti alle esigenze industriali».
Ma secondo lei i giovani oggi hanno vere strade alternative a quelle dettate dai discografici?«Selezionando migliaia di ragazzi per le mie opere vedo che sono molto preparati. E che quando dai loro fiducia imparano, crescono. Diamogli fiducia, dunque. Non in tv dove ne fanno star prima che artisti, non nell’imbuto del "pop-rock o niente", le scelte sono più ampie. L’opera popolare è qualcosa che noi non avevamo e che io sono contento di aver contribuito a sviluppare come linguaggio di oggi. Il mio compito ora è far sì che si stabilizzi, e produca scuole».