«No, non ho cercato affatto questo ruolo, ma non si può dire che ce ne siano molti per quelli della mia età». Così Clint Eastwood dice del protagonista di Gran Torino (nelle sale italiane il 13 marzo), Walt Kowalski che, dopo aver lavorato in una fabbrica di automobili al termine della guerra in Corea, si ritrova solo. La moglie è appena morta. Durante la cerimonia dell’addio lui, in piedi, ha salutato amici e parenti. Ma lo sbattere delle ciglia rivela la sua indifferenza per le parole del giovane prete e il disprezzo per gli altri, compresi figli e nipoti. I quali, a loro volta, non sono migliori di lui e, con la scusa di farlo star meglio, vogliono chiuderlo in una casa per anziani. Kowalski ha scelto un altro modo per elaborare il lutto. Sta sul terrazzino della sua casa , in un quartiere che una volta era borghese e adesso è invaso da 'cinesi'. Beve birra, sfoglia il giornale, guarda con disprezzo i vicini, una famiglia della comunità Hmong, originaria del Laos. Vengono da lontano. Durante la guerra del Vietnam hanno aiutato gli americani e questo consente loro di farla da padroni in casa d’altri. Visi gialli come quelli che lui ha combattuto in Corea. Non gli piacciono le loro feste, la disistima che la vecchia di casa gli manifesta, l’'aggiornamento' dei loro parenti che, in America, pare abbiano imparato solo a dire parolacce, a insultare le ragazze, a prendere di mira il cugino, il giovane Thao, che considerano una femminuccia. Per metterlo alla prova, lo costringono a tentare di rubare la macchina Gran Torino, un cimelio che, quasi per avere compagnia, Kowalski ha tirato fuori dal garage. E guarda mentre ripensa al passato, mentre insulta il sacerdote che, avendolo promesso alla moglie defunta, va a trovarlo e gli chiede addirittura di confessarsi. Kowalsky non è un uomo di fede. Vive di rancori. Eastwood lo considera un pazzo specie quando sorprende Thao nel tentativo di rubargli la Gran Torino. I vicini gli chiedono scusa e, per sdebitarsi, gli mandano Thao per aiutarlo e lo riempiono di cortesie. Kowalski resiste. Ma, a poco a poco, il brusco rapporto fra lui e il ragazzo migliora. Kowalski accetta di partecipare a una festa dei vicini e deve riconoscere che non sono proprio cattiva gente specie la bella sorella del ragazzino, l’unica in famiglia a desiderare di integrarsi nella comunità americana. Il legame tra l’anziano e il giovane è analizzato con osservazioni giustissime da Eastwood. Con il suo fare rude Kowalski aiuta Thao a convivere con se stesso, lo presenta ai pochi amici che gli sono rimasti, gli trova un lavoro. Ma la gang del cugino non desiste: aggredisce il ragazzo, violenta la giovane. Kowalski non si ribella subito. Ripensa al desiderio della moglie e si confessa al giovane prete, uno che – pensa – non ha nessuna esperienza di come va il mondo. E, disarmato, si presenta davanti alla casa del cugino. Clint Eastwood, invecchiando, è maturato. Si è liberato del razzismo del suo vecchio personaggio, l’ispettore Callaghan. Eastwood spiega: «Walt è chiaramente un razzista, ma impara poco a poco la tolleranza attraverso le sue relazioni forzate con la famiglia Hmong. Tutto cambierà quando, dopo aver aiutato il loro figlio adolescente Thao da una gang asiatica, scoprirà la riconoscenza e la solidarietà di questo popolo». È riaffiorato nel regista ciò che era latente: un rimosso cattolicesimo che, adesso, è diventato l’asse portante del suo brusco Kowalski. E Gran Torino, studio profondo di psicologie e di ambienti, racconto dal ritmo sicuro, può definirsi un film cristologico che gli spettatori finiscono per amare profondamente portandolo, come riconosce il regista, al successo (fino ad ora ha incassato solo negli Usa oltre 140 milioni di dollari).