mercoledì 10 maggio 2023
Il diplomatico ospite a Rovigo: «Molti conflitti derivano da inondazioni o siccità. Bisogna spostare il punto focale dai governi alle persone»
Il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni

Il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni - Ansa

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Guerre scatenate anche dal clima impazzito, giganteschi flussi migratori a cui eravamo impreparati e che paiono il preludio di esodi destabilizzanti per le economie e le società occidentali. Il futuro può essere catastrofico, ma non è segnato. Dedicato alla cura del Creato e al tragico impatto sull’attualità e sul domani del pianeta, il Festival Fiblico da venerdì 11 a domenica 13 maggio fa tappa a Rovigo. Tra i protagonisti degli incontri, oltre al teologo Luciano Manicardi e all’operatrice umanitaria Alessandra Morelli, il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni, segretario generale aggiunto per l’Energia e l’azione climatica dell’Unione per il Mediterraneo (UpM), autore con il fisico Antonello Pasini – anch’ egli a Rovigo - del volume Effetto serra, effetto guerra (Chiarelettere).

Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati a causa di fenomeni meteorologici estremi , negli ultimi dieci anni si è registrata una media di 21,5 milioni di nuovi sfollati l’anno, fra i quali 23,7 milioni solo nel 2021. Mastrojeni, quanto incidono i mutamenti climatici sulla stabilità in questa che papa Francesco definisce non epoca di cambiamento, ma cambiamento d’epoca?

Premesso che sono molto d’accordo con le parole del Papa, anche i geologi propongono di passare dall’Olocene all’Antropocene ed è veramente la prima volta che abbiamo raggiunto una massa critica di impatto sul sistema tale da farci sperare di diventare fattore di salvezza piuttosto che di distruzione. Ma un fattore unico non determina i conflitti. Le dottrine militari definiscono i mutamenti climatici un acceleratore di crisi accanto alle radici culturali e politiche. Il cambiamento climatico contribuisce al disagio e all’aumento della povertà di intere popolazioni.

Può fare esempi concreti?

Prendiamo il caso siriano. Oltre alle radici culturali e politiche, nel momento in cui si è deciso di far passare la fattoria siriana, molto resiliente e dove si coltivava tutto il necessario per la famiglia, a un modello cooperativistico di monocultura puntando sul cotone che prende tantissima acqua in un momento di siccità prolungata si è causato lo spostamento di un milione e 200mila persone dalla campagna alla città provocando la pressione che ha fatto esplodere la pentola. Anni fa ci sono state ricerche commissionate dal G7 che identificavano 79 conflitti nel mondo che avevano concause climatiche.

Altri esempi?

Il restringimento del lago Ciad di 18 volte in 40 anni è sicuramente uno dei fattori di allargamento del gruppo jihadista Boko Haram. Una indicazione interessante è che la Nato ha messo a bando un posto per capo scienziato climatico per l’analisi dei conflitti. Si è capito benissimo che la mancanza acqua è un problema di giustizia e quindi un problema di pace.

Quali sono le aree più pericolose in questo tempo?

Quelle dove i movimenti si originano hanno tutte qualcosa in comune: il clima che cambia, il deserto che avanza e che sottrae terreno alle colture mettendo in ginocchio le economie locali. L’Italia è di fronte alla dinamica aperta più vasta nel Sahel e a quella di destinazione più pericolosa in Europa che rischia di venire destabilizzata da flussi improvvisi. La fascia di desertificazione di fronte a casa nostra coincide con l’area dove si concentrano fame, conflitti, traffici illeciti, dinamiche terroristiche. Ma la più grossa minaccia climatica sta ad est ed è la fusione dei ghiacciai dell’Himalaya. Il pensiero che possano collassare ci lascia indifferenti per la distanza eppure i ghiacciai sono i regolatori di un ordinato flusso a valle dell’acqua. A sud dell’Himalaya il clima è monsonico, i ghiacciai trattengono umidità nella stagione piovosa per rilasciarla gradualmente durante quella secca attraverso la rete di fiumi attorno ai quali vivono un miliardo e 400 milioni di persone. Se i ghiacciai crollano, un quinto della popolazione mondiale deve rinunciare alle proprie specifiche produzioni agricole.

Con quali conseguenze?

Si potrebbe determinare un flusso migratorio immenso se la popolazione si trovasse a gestire l’alternanza di siccità e alluvioni. La Seconda guerra mondiale si spiega anche per la pressione socio economica derivante dalla crisi del 1929 che fece perdere il valore dei risparmi a 20 milioni di persone. Qui abbiamo almeno 450 milioni di persone che all’improvviso rischiano di perdere acqua, riso e strade. Aggiungiamoci che Cina, India, Pakistan e Russia sono potenze nucleari e il quadro è completo.

Che approccio dobbiamo avere?

Bisogna spostare il punto focale dai governi alle persone. I governi fanno trattati leggi e provvedimenti fiscali che restano pezzi di carta se non generano cambiamento. Non ci muoviamo per due percezioni errate. Primo, pensiamo di essere gocce irrilevanti nell’oceano, ma il sistema moltiplica il valore dei nostri gesti e può farlo diventare uno tsunami di cambiamento. Poi ci diciamo che non vale la pena affrontare il sacrificio dei cambiamenti, ma non c’è nessun sacrificio a vivere in modo sano e quindi sostenibile perché perseguiamo il nostro stesso benessere. E la somma dei comportamenti di ricerca del vero benessere provoca quei mutamenti che ci consentono di affrontare lo scioglimento dei ghiacciai, la desertificazione del Sahel e le migrazioni. Paradossalmente andiamo incontro al disastro perché non vogliamo essere più ricchi e felici. Prendere coscienza dei rischi può favorire un’operazione di pace, integrazione e giustizia di portata inedita.

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