Lo scrittore francese Philippe Claudel - Giorgio Boato
Quando ancora non aveva dieci anni, die Kleine – la piccina – è morta ed è risorta. Scaraventata in una fossa comune, si è fatta strada tra i cadaveri, è riemersa in superficie e si è ritrovata in un luogo fuori dal tempo. Una donna si prende cura di lei, forse per pietà o forse per rimorso. Di tutto il resto la piccina non sa niente. Conserva una memoria incerta del passato: un uomo (il padre?) seduto in una stanza piena di libri, la madre e il fratello perduti chissà dove. Di giorno in giorno, il suo aspetto è sempre più simile a quello di una creatura selvatica, con il cranio calvo e il volto segnato da graffi e cicatrici. Eppure anche lei ha bisogno di credere in qualcosa, fosse soltanto la testa mozzata della Vergine che la donna ha prelevato per lei dalla chiesa che è in rovina, perché tutto lì intorno è rovina. Anche la piccina ha bisogno di contemplare qualcosa, fosse soltanto il cadavere carbonizzato del militare tedesco che il lettore ha incontrato nelle prime pagine del libro e che adesso ritrova sul finale di Dopo la guerra (traduzione di Francesco Bruno; Ponte alle Grazie, pagine 144, euro 15,90), l’essenziale romanzo in racconti attraverso il quale lo scrittore francese Philippe Claudel torna a misurarsi con l’eredità dolorosa della storia europea. Lo aveva già fatto nel 2003 con Le anime grigie, dove a fare da sfondo al racconto era la memoria non conciliata del primo conflitto mondiale. Già allora toccava a una bambina il ruolo di vittima sacrificale, ma die Kleine di Dopo la guerra ha una tempra diversa. Non ha lasciato che la sofferenza spegnesse la sua volontà di sopravvivenza. Al contrario, si è lasciata temprare dalla sventura, regredendo a una condizione primordiale, in cui tutto è percezione, nuda vita, istinto. Dallo scenario iniziale delle Anime grigie sono passati molti anni. Con il nuovo libro siamo all’indomani della Seconda guerra mondiale, in una Germania devastata dalla sconfitta e gravata dal peso della colpa. È un paesaggio al quale Claudel (nato nel 1962, docente universitario con esperienza di insegnate in carcere, narratore di successo, regista e accademico Goncourt) guarda con la consapevolezza di chi è cresciuto in Lorena, e cioè nel territorio in cui, nella seconda metà dell’Ottocento, si è consumato lo scontro fratricida della Guerra franco- prussiana. Impossibile, da questa ste parti, non conoscere la lingua del vicino che sta al di là della frontiera. E altrettanto impossibile, una volta che il vicino è diventato nemico, riconoscersi in quella medesima lingua, che assume gli accenti dell’estraneità e del sopruso. In tedesco, nella fattispecie, sono i titoli di questo libro scritto in francese e originariamente intitolato Fantaisie allemande, “Fantasia tedesca”. A giustificare la dicitura è anzitutto il lungo capitolo Gnadentod. Con questa espressione, “morte misericordiosa”, la burocrazia nazista si riferiva al programma che comportava l’eliminazione fisica di pazienti psichiatrici, di portatori di handicap e di ogni altra creatura ritenuta imperfetta. Nell’immaginazione di Claudel tra le vittime dell’eutanasia eugenetica ci sarebbe anche il pittore Franz Marc, che in effetti morì al fronte nel 1916. Non così nel racconto, basato sull’ipotesi controfattuale di un Marc colpito sì da una scheggia di granata, ma a sua volta sopravvissuto, come die Kleine, e tormentato da disturbi mentali che lo trasformano in un reietto. La sua vicenda diventa esemplare per la propaganda hitleriana, che sfrutta con compiacimento la conversione dell’arti “degenerato”, ora commosso fino alle lacrime davanti ai presunti capolavori della nuova estetica di regime. Costruito su una sapiente alternanza di materiale documentario e illazioni illuminanti, Gnadentod convoca tra i comprimari anche un autentico studioso di Marc, qui incaricato di sostenere la tesi provocatoria di una metodica falsificazione: il pittore del Cavaliere azzurro è morto nella Grande Guerra, dichiara il biografo, i disegni degli anni Trenta a lui attribuiti sono il risultato di una mistificazione… Se l’apologo sulla vita indiziaria di Marc è una dimostrazione dell’efficacia della letteratura come strumento di interpretazione della realtà, il vero filo conduttore delle trame riunite in Dopo la guerra è un personaggio del quale conosciamo poco più del nome, Viktor, e che ritorna con metodica frequenza in contesti differenti. Lo si intuisce aguzzino, amante, complice o semplice esecutore di ordini terribili, fino a quando le sue generalità non corrispondono a quelle di un anziano privo di forze, che canticchia l’inno delle SA mentre la giovanissima badante lo lascia lentamente morire di fame, replicando su di lui il supplizio già riservato ai prigionieri dei lager. Un contrappasso feroce, reso ancora più raggelante dal fatto che la ragazza sembra ignorare tutto della storia che la precede e tutto del presente al quale appartiene. A differenza della piccina, però, a lei è negato il dono dell’innocenza. Potrebbe ancora scegliere il bene, se volesse. Ma non ha abbastanza coraggio per sottrarsi al male e di quello si accontenta. Crudelmente, banalmente.