Il neoclassico Campidoglio di Washington, sede del Congresso degli Stati Uniti d’America - -
Che sia la prima o l’unica, come si ricorderà l’Amministrazione Trump 2017-2020 nella storia? Oltre ai molteplici trambusti a livello politico, sociale, economico e diplomatico, lascerà anche un segno sul piano monumentale, come amano fare le grandi personalità? Lui ci ha provato e come in ogni altro campo ha provocato ampie ripercussioni. A metà luglio la parlamentare Alice Titus ha presentato una proposta di legge per la Democrazia nel Design, sostenuta dalla principale associazione professionale di architetti americani, per impedire l’attuazione del decreto concepito da Trump nel febbraio scorso al fine di “Tornare a erigere edifici federali belli”. Trump ha voluto rivedere i Principi guida per l’architettura pubblica federale del 1962, che lasciano alle autorità locali e ai professionisti di decidere come costruire; secondo lui infatti bisogna «preferire l’architettura classica per offrire testimonianze della dignità, del vigore, della stabilità del Governo». In un’epoca che cerca lo slancio di lunghi aggetti e campate, e la trasparenza del vetro nel segno della libertà, suona strano che qualcuno voglia imporre d’autorità l’opacità di grevi colonnati. Un approccio diametralmente opposto a quanto informa l’architettura contemporanea.
Ed è singolare che proprio mentre Trump annunciava il suo decreto, in Francia si prendeva una strada completamente differente, espressione di una sensibilità europea che pare sempre più lontana dagli umori di oltre oceano. Julien Denormandie, ministro per le Città e le abitazioni, ha reso noto che tutti gli edifici pubblici dovranno essere costruiti «almeno per il 50 percento in legno o in materiali biocompatibili». Esempio di questo è il Villaggio per le Olimpiadi di Parigi del 2024, progettato da Dominique Perrault all’impronta della leggerezza, con ampi terrazzi, grandi vetrate e tetti verdi. Il piano francese non mira alla monumentalità, ma a ottenere per il 2050 città capaci di non generare inquinamento, in linea con l’accordo di Parigi sul clima del 2015 che, com’è noto, Trump ha denunciato. Ecco dunque due atteggiamenti molto diversi tra le sponde dell’Atlantico: il primo è mosso dall’affanno per la ricerca identitaria espressa in forme architettoniche ma ignora il problema ambientale; il secondo lascia piena libertà sul piano formale ma cerca di ottenere un ambiente ben vivibile grazie a un uso sostenibile di suolo, materiali e così via, poiché è noto che la costruzione e la gestione degli edifici sono tra le maggiori cause di inquinamento. Nulla più dell’architettura conforma l’ambiente umano e per questo le sue opere meglio rappresentano la cultura di una certa società e del momento che essa vive. Non a caso gli stili del passato sono associati a specifici periodi storici e ben li simboleggiano, anche perché, a differenza di altre manifestazioni artistiche, l’architettura ha sempre un contenuto collettivo, essendo frutto non di una singola mente ma del convergere delle volontà del committente e del progettista nonché delle disponibilità tecnologiche ed economiche del momento: una torre alta come quella di Eiffel poteva essere rappresentata anche in una pittura medievale o in un graffito preistorico ma sarebbe stato impossibile costruirla prima che vi fossero processi industriali capaci di produrre e manovrare acciai di quelle dimensioni.
Ufficio postale a Seaside, in Florida - Paigeh/Flickr/Wikimedia
Il modernismo nelle sue varie espressioni, insieme con l’aumento sconvolgente dell’attività edificatoria e delle relative speculazioni economiche, dal secondo dopoguerra ha portato al diffondersi di una progettualità banalizzata nella monotonia delle ripetizioni lineari, ma ormai da molti anni emergono ricerche progettuali di segno opposto, fondate sul richiamo a stili del passato. A volte originali, ma banali nella massificazione: negli Stati Uniti questa tendenza si è diffusa sull’onda del “New Urbanism” che consiste nel costruire insediamenti urbani con facciate che ricordano quelle di villaggi storici. Anche in Italia tale tendenza ha conosciuto un notevole successo immobiliare, in insediamenti turistici e soprattutto negli “Outlet village”, paesotti del commercio piazzati in zone extraurbane un po’ ovunque: Serravalle Scrivia in Piemonte, Rodengo Saiano vicino a Brescia, Castel Guelfo presso Bologna, Castel Romano, Molfetta in Puglia, in Sicilia ve n’è uno ad Agira e in Sardegna un altro a Sestu vicino a Cagliari, per citarne solo alcuni, ma nelle guide turistiche sono elencati tutti. In epoca pre-coronavirus si sono dimostrati capaci di attrarre flussi di visitatori di ogni nazionalità, quanto e più dei musei. Hanno porte sormontate da grandi archi, palazzine turrite e merlate di stampo medievale, colonne e colonnine con capitelli vezzosi, finestre a oblò incorniciate, fregi, scudi istoriati, logge e loggette, bandiere e stendardi, ornamenti a festoni come le torte nuziali, frontoni e metope come tempi greci. Tutto finto, ma piace. Dovrebbero essere il riaffermarsi del genius loci a fronte del globalismo, ma se ne trovano di identici ovunque, come le New Town. E vendono ovunque gli stessi prodotti alla moda.
Se dopo il coronavirus continueranno è da vedersi, ma il fatto è che testimoniano una tendenza affermata: ovviamente chi ha l’animo dello speculatore immobiliare non può non prenderne nota. Il ritorno al passato, per finto che sia, si vende bene. Certo nell’epoca della spasmodica attenzione per l’ambiente vende bene anche anche il ritorno ai materiali ecologici: legno e terra cruda anzitutto. La differenza essendo che quest’ultimo è figlio non tanto del consumismo, quanto di una necessità autentica della nostra epoca, e proprio per qeusto si rivolge a materiali usati per costruire sin da tempi lontanissimi.