Sembrerà incredibile, ma domani 20 dicembre compie settant’anni Gigliola Cinquetti. Avete letto bene: Cinquetti, per tutti gli italiani l’indimenticabile e sempiterna sedicenne di Non ho l’età, vincitrice a Sanremo ’64 e al successivo Eurofestival in terra danese. Ma Gigliola Cinquetti non è soltanto eterna icona di se stessa adolescente, emersa nella nuova leva di interpreti impostesi contemporaneamente al cantautorato grazie a una voce calda, potente e sensuale. Divenuta grazie al boom di quegli esordi una diva della nostra canzone, l’artista di Verona ha saputo nel tempo restare inimitabile, grazie a doti di eleganza, cultura e soprattutto intelligenza. La medesima intelligenza che già a Castrocaro, vinto nel ’63 a pochi mesi da Sanremo, le fece portare in gara una canzone moderna e matura, Le strade di notte di Giorgio Gaber. E se Non ho l’età è stato per la Cinquetti passaporto per l’estero, con trionfi persino in un Regno Unito solitamente avaro di soddisfazioni per la musica tricolore, quel suo coraggioso inserire da subito in repertorio la canzone d’autore è il vero filo rosso della sua discografia, in cui ha inciso album raffinati dedicati alla cultura popolare italiana (dai canti alpini al liscio) e soprattutto perle nascoste, riscoperte o ancora inedite dei vari Ciampi, Guccini, Vecchioni, Locasciulli, Conte. Sino allo Jannacci di Sfiorisci bel fiore, al Ruggeri di Prima del temporale e al Faletti da lei presentato al mondo sempre a Sanremo, nel ’95, prima di un disco intero firmato dall’autore astigiano. E oggi la neosettantenne Gigliola Cinquetti, che grazie ai suoi studi oltre che diva della canzone è stata anche giornalista, attrice e conduttrice tv, prosegue con successo una carriera discosta dai riflettori quanto, una volta di più, sobria e meditata. La incontriamo al termine di una lunga tournée mondiale che l’ha vista trionfare in Brasile, Colombia e Giappone con chiusura a Parigi fra teatro e tv. Il suo ultimo cd per ora è datato 2015 (il titolo è 20.12, numero ovviamente non casuale), ma la sua vitalità sorridente è ancora intatta: ben oltre l’icona dolcissima di quella ragazzina che non aveva l’età, ma in compenso possedeva una testa pensante.
Come ha scelto la musica, da bambina?
«Penso di aver sempre cantato… avrò sentito mia madre farlo: senz’altro sono stata più precoce nel canto che in altro. Mi sono diplomata a dodici anni in teoria musicale e solfeggio, e però nel mestiere di cantante sono quasi capitata: a causa delle pressioni del condominio e dell’ufficio di mio padre, i luoghi in cui mi sentivano di continuo… Mio padre mi vedeva timida in tutto fuorché nel cantare e mi iscrisse a un concorso al Teatro Ristori: vinsi, entrai in una compagnia amatoriale e di lì arrivai ai mesi che mi cambiarono la vita, da Castrocaro e Copenhagen. Ma pensi che popo- larità mi diede il solo Sanremo: pochi giorni dopo mi chiamavano all’Olympia di Parigi»-
È mai stata un peso, l’icona di Non ho l’età?
«Un peso no. Però, certo, più passa il tempo più vivo con leggerezza questo alter ego compagno di viaggio. Ormai è una ragazza-talismano, un portafortuna».
Quanto ha perso della gioventù debuttando presto?
«Molto, ma penso ne sia valsa la pena. Ho acquisito una consapevolezza di me che mai avrei avuto in provincia, ho conosciuto il mondo, ho imparato le lingue. Ma ci sono stati anche diversi spigoli: la solitudine in cui vivevo a sedici anni, quel ruolo più grande di me, la responsabilità di rappresentare l’Italia, ma soprattutto far convivere l’ambizione di portare bellezza, che credo sia il compito di un artista, con le mie fragilità di ragazza. Però non ho rimpianti».
Lei vinse a Sanremo anche nel ’66, cantando Dio come ti amo con Domenico Modugno. Che ricordo ha di lui?
«Era un uomo esplosivo, divertente: lo vedevo come di un mondo precedente, io mi sentivo di una generazione rivoluzionaria… Ma anche lui aveva fatto la sua rivoluzione, e fui lusingata che volesse me contro i pareri di tutti, discografici compresi. Scelsi da sola dopo aver ascoltato il pezzo da lui alla chitarra: fu con quel brano che divenni celebre in America latina e Brasile. Laggiù per il musicarello sul brano mi definirono al livello della Bergman: e in un cinema l’hanno dato per vent’anni di fila!».
Comunque li ha cantati da subito, grandi cantautori: a quali dischi e brani è più legata?
«Oltre che all’ultimo, degli album direi Pensieri di donna che contiene Oh que serà di Chico Buarque e quello con Locasciulli del ’91, Tuttintorno. Ma in ogni Paese ho repertori diversi: le citerei Go che ho fatto in Inghilterra nel ’74 o Gigliola y Los Panchos del ’68 in Messico… Come brani di recente ho ripreso Ho bisogno di vederti di Piero Ciampi, che nel ’65 portai a Sanremo, in lingua spagnola».
Ha pure lanciato il Faletti autore: che ricordo ha?
«Che ricchezza di ispirazione, Giorgio: è stato apprezzato solo in parte, non ha mai trovato una giusta produzione. Teneva tantissimo, alla musica».
Cosa pensa delle cantanti di oggi?
«Sono ammirata da padronanza tecnica e mezzi vocali, ma non dalla qualità delle voci o dai contenuti delle canzoni: verbosi, ridondanti, lontani dalla semplicità della bellezza classica. Tendono tutte a spettacolarizzare il nulla: non credo che comunicare con le canzoni significhi fare esercizi ginnici con la voce o quello che chiamano performance, che poi prende il sopravvento su contenuti piccolissimi».
Cosa ha in programma la Cinquetti neosettantenne?
«Le confesso una cosa: ci ho preso gusto a girare il mondo, a incontrare il pubblico in modo non virtuale. Dopo diversi anni ferma (anche per seguire figli e famiglia, nda) sono tornata alla mia vita da ragazza e mi dà gioia: forse è il premio per ciò che ho perso con questo mestiere, che spero di fare ancora un po’. Di certo il mio tour mondiale non è finito a Parigi».