«Intuito, coraggio e follia». Tre caratteristiche imprescindibili di chi vuol fare cinema. A parlare è Werner Herzog, il regista di film come
Aguirre, furore di Dio e
Fitzcarraldo, durante una
masterclass nell’ambito dell’edizione 2013 del Festival di Locarno. Tutte caratteristiche importanti che definiscono il talento e la motivazione di chi sta costruendo il proprio percorso artistico. L’offerta formativa legata al mondo dello spettacolo cresce in Italia per coloro che non solo amano, ma vogliono seriamente fare cinema. La scuola più storica d’Italia, con ben 75 anni all’attivo, unita alla Cineteca più ricca d’Europa, è il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Situata vicino a Cinecittà, la Scuola ha anche sedi distaccate, legate al documentario (Palermo), alla televisione (Lombardia), all’animazione (Piemonte) e al reportage (Abruzzo). Autori che hanno fatto e fanno il cinema, come Giancarlo Giannini, Piero Tosi, Daniele Luchetti, arricchiscono il percorso didattico del Centro sperimentale. Ogni anno i ragazzi, pieni di speranza e desiderio di fare della propria arte un mestiere, si preparano, dopo una dura selezione, a formare i propri talenti. E da questa scuola, dal 1935 ad oggi, di talenti ne sono usciti: fra gli attori Arnoldo Foà, Claudia Cardinale, Gianni Agus, Raffaella Carrà, Carla Gravina, Iaia Forte, Giulia Lazzarini, Domenico Modugno e, più di recente, Alba Rohrwacher, Carolina Crescentini e Riccardo Scamarcio; fra i registi Pietro Germi, Michelangelo Antonioni, Nanni Loy, Liliana Cavani, Francesca Archibugi, Carlo Verdone.Ma serve realmente una scuola di cinema? Cosa spinge i giovani a tentare una strada in salita, minata dal precariato e spesso dipendente dal consenso del pubblico? Abbiamo incontrato Caterina D’Amico, direttrice della Scuola di Cinema del Centro sperimentale (presieduto dallo sceneggiatore Stefano Rulli) e diversi alunni della sede centrale di Roma che hanno iniziato o stanno terminando il loro percorso didattico triennale e affrontano, per la prima volta, la difficile carriera nel mondo dello spettacolo. «Abbiamo girato, come diploma di fine anno, uno spettacolo tratto da
After the End di Dennis Kelly con la regia di Vito Mancusi» racconta Maria Chiara Giannetta, alunna del terzo anno di scuola di recitazione. «Nel nostro mestiere si attende la prima dello spettacolo per avere un confronto del pubblico e un riscontro del lavoro. Hai bisogno degli altri, non puoi giudicarti da sola. E dopo il diploma non mi va di aspettare a casa guardando il cellulare in attesa di una chiamata. Organizzerò uno spettacolo teatrale». «Ho avuto momenti di ripensamento sulla professione» spiega Leonardo Pazzagli, studente del terzo anno, che ha già recitato in fiction televisive e che sarà protagonista di
Un bacio di Ivan Cotroneo. «Mi sono chiesto se il mestiere dell’attore possa essere adatto a costruire una famiglia nel futuro. Nel nostro primo anno di scuola la classe era composta da 18 ragazzi, ora siamo rimasti in 12. Non sono uno di quelli che vive solo di recitazione: sto studiando parallelamente Storia presso l’Università La Sapienza. Il Centro è un’ottima scuola, si potrebbe migliorare dal punto di vista dell’organizzazione e delle docenze. Formalmente non potremmo lavorare, ma alcuni di noi lo fanno». Non tutti gli alunni sono però convinti di avere scelto la strada formativa giusta per costruire la loro carriera. «Sono contenta del diploma – racconta Veronica che sta terminando il corso di produzione – ma vorrei che fosse valorizzato meglio. Il Centro non è ben visto fuori dal nostro contesto scolastico: a volte cercare lavoro, dopo aver ottenuto un diploma al Centro, ti ostracizza». «Personalmente mi sono iscritta al Centro – spiega Guendalina – dopo altri percorsi scolastici: ci sono tante scuole di specializzazione, ma questa sembra essere la migliore. Accade però che le iniziative personali professionali non sono approvate perché sviano dal percorso didattico. Se abbiamo un’opportunità durante le lezioni di fare pratica e stage, l’assenza alle lezioni non è mai giustificata». «Gli studenti – sottolinea Graziella Bildsheim, docente e ideatrice di
workshop internazionali di produzione – acquisiscono gli strumenti professionali, ma è necessario un maggiore legame con il mondo esterno. Forse una soluzione potrebbe essere quella di combinare periodi di stage e di lavoro». Più pieni di speranza i ragazzi che studiano suono e montaggio, ancora ai primi anni. «Siamo ragazzi – racconta Giuseppe – uniti dalla stessa passione, perciò abbiamo deciso di realizzare qualcosa insieme. Durante l’estate scorsa abbiamo girato un film in cinque settimane, ed eravamo tutti ragazzi del Centro sperimentale e qualcuno della Scuola Gianmaria Volonté: l’età media sul set era di 26 anni e il nostro film aveva un budget non superiore a 50mila euro». «Porsi un obiettivo rispetto al lavoro è difficile» spiega Stefano che studia montaggio. «Noi facciamo quello che possiamo e non dobbiamo utilizzare la scusa della crisi professionale per stare fermi. Speriamo di potere fare bene il nostro lavoro. Speranza è la nostra parola più gettonata. Se non ce l’abbiamo noi…». Speranza ma anche coltivare bene il proprio talento, mettendolo al servizio di un lavoro comune. Ne è convinta Caterina D’Amico, direttore della Scuola di Cinema e figlia di Suso Cecchi D’Amico, la sceneggiatrice premio Oscar che ha reso grande il nostro cinema. «Il mondo è bersagliato dalla necessità di primeggiare, ma è dannoso per l’anima e la mente. Alcuni talenti, più individualisti, non si integrano, non riescono a lavorare in gruppo. Le competenze che insegniamo sono poi molto legate all’iniziativa personale e lo scopo del Centro è insegnare una consapevolezza, fornire le giuste conoscenze che possano permettere a ciascuno di trovare una propria strada. Sono stata preside – aggiunge – dal 1988 per 15 anni non consecutivi e ho visto tanti allievi crescere e diventare veri professionisti. A marzo, in occasione del ritorno in sala di
Piccola America, il film d’esordio di Gianfranco Pannone di 25 anni fa, ho rivisto tanti ex alunni della scuola. Anche loro, quando avevano venti anni, si lamentavano che al Centro non ricevevano le opportunità professionali di cui avevano bisogno».