Un mese fa Carlo Verdone, sulle colonne di “Avvenire”, rilanciava un’idea “dimenticata”, ma che, da circa un secolo, trova sostenitori tra intellettuali, docenti (molti hanno già scritto al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini) pedagogisti, psicologi, antropologi e sociologi: lo studio del cinema e della televisione (ma anche della radio) a scuola. Più di qualcuno potrebbe rispondere che in effetti «già da anni abbiamo il cinema a scuola, proiettiamo un film al mese, vediamo delle clip di film e serie-tv famosi attraverso le lavagne multimediali, abbiamo il cineforum il pomeriggio». Tutto vero. Ma quello che studiosi e cineasti sostengono è qualcosa di diverso: lo «studio sistematico e rigoroso della storia e critica del cinema ed della televisione» (Verdone), affidato non a insegnanti aggiornati in “zona Cesarini”, con il solito corso tenuto dalla solita associazione (in cerca di fondi) e “riconosciuto” dagli organi ufficiali, ma a «docenti che hanno seguito un percorso universitario» (Verdone) e, aggiungiamo noi, corsi post-universitari dedicati alle discipline dei media.
L’appello di Verdone si tinge d’urgenza dopo la diffusione dei dati della ricerca dell’Istituto Toniolo circa il consumo cinematografico dei giovani tra i 20 e i 35 anni. Essi vedono un film al mese ma raramente la visione è quella classica in sala. Il consumo è sovente singolo e su schermi/dispositivi portatili o da tavolo. Accanto alla chiusura delle sale di cinema (850 negli ultimi 10 anni) si sta perdendo un’importante forma sociale e culturale: la condi-visione dello spettacolo cinematografico e di tutto quello che è intorno ad esso. Ad esempio, il piacere di leggere, vedere e commentare i manifesti del film esposti in prossimità della sala «che prendono vita» (Cinema Liberty, 1926, di Giacomo Debenedetti ); il piacere della fila davanti alle casse che spesso porta a fare conoscenze con altri spettatori, talvolta tra «richiami frenetici, interiezioni selvagge, indicazioni topografiche radiotelegrafate ai congiunti» (Cinema, 1927, Carlo Emilio Gadda), sino all’eventuale scambio di opinioni sul film che a fine proiezione può favorire la comunicazione tra gli spettatori e magari una nuova amicizia. Un Paese all’avanguardia nella didattica come la Francia già nel 1911 ricorreva a proiezioni cinematografiche in 35 millimetri, di argomento scientifico, nei licei delle maggiori città (Parigi, Lione, Lille, ecc.). Nel 1920 il provveditore agli studi del ministero dell’Educazione francese, Hugues Besson, presentava alla Commissione extraparlamentare un “Rapport génerale sur l’emploi du Cinématographe dans le différentes branches de l’enseignement”, affermando che «toute le monde connait la poussiance de l’image dans la formation intellectuelle e morale de la junesse».
A partire dagli anni Trenta il cinema europeo annovera i primi film che mostrano la vita scolastica attraverso il genere della finzione, alcuni dei quali autentici capolavori: L’angelo azzurro (1930, Josef Von Sternberg, Germania); Prima della maturità (1932, Vancura & Innemann, Cecoslovacchia); Zero in condotta (1933, di Jean Vigo, Francia); La maternelle (1934, Jean Benoît-Levy e Marie Epstein, Francia); Seconda B (1934, Goffredo Alessandrini, Italia), ecc.. Mentre il cinema vede la scuola, l’Istituzione non vuol vedere il cinema. I governi e i vertici della scuola considerano il film sì un valido strumento di propaganda, da consumare soprattutto al cinema (in Italia, per esempio, insieme ai Cinegiornali della Settimana Incom), meno come ausilio per le “materie” scolastiche. Fa eccezione, come ricordato, la Francia. Il menzionato Jean Benoît Lévy, regista di oltre 400 film educativi, docente e teorico della didattica cinematografica, sin dagli anni ’20 studia gli effetti pedagogici dell’insegnamento del cinema (Le cinéma d’enseignement et d’éducation, 1929). Nel secondo dopoguerra egli ribadirà la sua convinta «pedagogia cinematografica» sostenendo che «il cinema ha il privilegio di trasportare la vita; ed è il solo mezzo che possa fare entrare attraverso questa grande finestra aperta sul mondo esterno, un soffio d’aria che sconfiggerà i pregiudizi, i metodi troppo vecchi della didattica» (L’arte e la missione del film, 1946).
E in Italia? Anche da noi, a partire dal secondo dopoguerra, diversi studiosi iniziarono a dibattere sulle riviste del ruolo pedagogico, formativo e interdisciplinare del film. Contestualmente apparivano i primi corsi di cinema universitari, grazie al gruppo dei docenti del Magistero della Sapienza di Roma, in collaborazione con quelli del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il primo corso di Filmologia, del 1947, ebbe come relatori eminenti studiosi: Luigi Volpicelli, Mario Ponzo, Francesco Piccolo, Luigi Chiarini, MarioVerdone, Cesare Musatti, Enrico Fulchignoni e altri. Ma nella scuola il cinema rimane appeso, per decenni, alla volontà e alla cultura dei singoli insegnanti (di “lettere”) che tentano di inserire, ogni tanto, un film negli interstizi di tempo tra letteratura, latino e storia. O ai semideserti cineforum (spesso ospitati in ambienti non adatti per una proiezione di qualità) nelle ore pomeridiane. Con la recente Legge 107/2015 (la “Buona scuola”) si prevedono ore di “potenziamento” dedicate anche al cinema (oltre che alla musica, all’arte, ai media). Ma quando? Di pomeriggio. Ardua impresa combattere con gli impegni degli allievi, già contesi tra piscine, campi di calcio, sale di danza, o con il pendolarismo dei centri periferici. Dunque, siamo ancora nel regno del facoltativo.