Particolare del Crocifisso di Giotto (1301-1302) conservato nel Tempio Malatestiano di Rimini - WikiCommons
Anticipiamo qui un estratto da Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana (EDB, pagine 264, euro 19,00) di Giuliano Zanchi.
Il mondo assai variegato della vita cristiana ha riscoperto solo recentemente, diciamo una quarantina d’anni, la chiave esteticofigurale come opportunità per una generale ripresa di coscienza del proprio deposito spirituale. Le inventive della pastorale si sono riempite di immagini. I suoi discorsi si sono infarciti di enfatici richiami alla bellezza. Mi sembra aver preso quota un orgoglio per quel patrimonio di arte sacra che si fa valere proprio alzandosi sul piedistallo della storia dell’arte e che tende a mitizzarsi retrospettivamente secondo un analogo racconto di convenzione; contraendo una medesima concezione dell’immagine, apologetica e astorica, che viene rinchiusa nel guscio dorato della sublimità artistica.
Vorrei non contestare il senso di quella riscoperta, che mi sembra anzi opportuna, quanto mettere in discussione la solidità di quel piedistallo, che mi pare invece ormai inadeguato. In quella posizione infatti il lemma “arte sacra” finisce per definire il legame tra potere delle immagini e vita cristiana come un dato immutabile, assunto una volta per tutte nel suo modello uniforme, che però non riflette altro che una sorta di idealizzazione romantica dell’arte a soggetto religioso della stagione tridentina. Proiettato all’indietro, quello sguardo fa dell’intera storia cristiana una mera ripetizione della stessa gloria estetica; proiettato in avanti, ma anche solo sul presente, esso non percepisce che il vuoto lasciato dalla sua assenza, resa particolarmente luttuosa dal declino moderno della figura. (...)
La convinzione di fondo è che i bisogni della vita cristiana e il potere simbolico delle immagini hanno dato vita nel tempo a vari modelli di incontro, secondo paradigmi che ogni volta hanno assegnato all’immagine, anche quella definita sacra, una diversa funzione. È un racconto che tratteggia sostanzialmente l’avvicendarsi di tre tempi.
Il primo tracciato storico, che si slancia per un’ampiezza di quasi tredici secoli, può essere definito, seguendo il famoso titolo di Hans Belting, un’epoca di culto delle immagini. Un cristianesimo in ascesa eredita dalla cultura antica una “concezione attiva” dell’immagine che, attraverso il crogiolo della teologia e superando vecchie inibizioni aniconiche, confluisce nella funzione assegnata alla nuova immagine cristiana. Nota con il termine di icona, essa condensa un tale densità simbolica da lambire i confini del potere sacramentale oltre che rappresentare un analogo della reliquia e del segno eucaristico. Un tale potere garantisce il realismo della presenza nella delicata comunicazione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile. In ordine alla sua efficacia restano sostanzialmente impercepiti quei particolari criteri di qualità cui si darà nel tempo il nome di arte. Sono ben più dirimenti quelle differenze di ordine teologico che permettono di distinguere un’icona da un idolo. Questa distinzione e quella che determina la funzione delle immagini sacre fino alle soglie dell’Umanesimo.
Il secondo tempo di questo racconto avviene nei confini della modernità, intesa come arco che unisce il fiorire dell’umanesimo e il suo sviluppo nei secoli della ragione. La differenza tra idolo e icona non è più cosi trasparente. La teologia provvede a separare rigorosamente le prerogative dell’immagine e quelle del sacramento. Sull’eucaristia viene posto tutto il peso della presenza reale. L’immagine diventa luogo della rappresentazione. La bolla neoplatonica dell’antica cosmologia prima si incrina, poi si dissolve. L’immagine non è più sacramento dell’altro mondo, ma rappresentazione di questo. Non significa che essa non sia più veicolo della dimensione spirituale. Ma dovrà farlo secondo un diverso ordine di mediazioni. Legata alle capacita tecniche dell’uomo, essa è ormai “opera dell’arte” e da sacramento astorico di un tempo ora entra nel catalogo di una disciplina che ha la sua autonomia e la sua storia. Infatti l’arte finirà per essere un analogo della religione, per poi prendere la propria strada.
Il terzo momento è quello in cui ci troviamo noi. La civiltà forgiata dalla ragione ha perso la fede in ogni possibile narrazione. Non esistendo più un fondamento la dimensione estetica si incarica di coprire il gigantesco vuoto della sua assenza. Le immagini non sono riflesso della verità, nemmeno rappresentazione del mondo, ma la sola realtà esistente. Nel nostro mondo tutto quello che ha pretesa di essere reale deve passare attraverso le immagini. Una nuova simbolica forte, anche se priva di una referenza trascendente. Non abbiamo ricominciato noi a parlare di icone?
La vita sociale si estetizza in ogni suo aspetto e ogni immagine del passato diventa contemporanea del suo gioco. Quello che oggi chiamiamo arte contemporanea ha assunto altre missioni. Essa permette la sopravvivenza di quel permanente iconoclasmo che nella storia combatte sempre il pericolo di una idolatria dell’immagine onnipotente. In tempo di “tirannia della bellezza” l’arte batte i palcoscenici della commedia e della tragedia. Nel frattempo la vita cristiana è finita ai margini del mondo e fatica molto a comprendere quello che vi accade. Subisce il nuovo impero delle immagini ma non sa trovare aiuto nelle arti. (…)
Il rapporto tra potere simbolico delle immagini e bisogni della vita cristiana, per quanto sempre molto fluido, ha dato vita a modelli relativamente configurati, in cui quello che ci siamo abituati a chiamare immagine sacra ha assunto caratteristiche e funzioni anche diverse. Il nostro è il tempo in cui essa, tra mille difficoltà, sta cercando la sua nuova sintesi. Ciò di cui la cultura media dei cristiani oggi non ha coscienza è proprio questa condizione di lenta emersione di un nuovo modello, avendo perso memoria della sua natura storica. Essa quindi ricorre continuamente al ripostiglio del suo passato, quando non frequenta i discount delle novità a buon mercato. Non ha pazienza. Vedere il passato come un ricettacolo di variazioni, anziché una ripetizione dell’identico, consente al futuro di prepararci novità. Così il presente può essere un luogo di attesa.