La gioia dei giocatori del Liverpool (Ansa)
Ora che ha anche la corona, Jurgen Klopp può finalmente dirsi re, alla faccia di tutti coloro i quali, sino a ieri sera, ne cantavano le lodi salvo poi ricordargli, perfidamente, le sei finali consecutive perse tra Dortmund e Liverpool. Ora no, ora non più: nella notte del Metropolitano, ieri l’allenatore tedesco ha condotto i Reds ad alzare al cielo di Madrid la sesta Coppa dei Campioni della loro storia, battendo per 2-0 nell’ultimo atto della Champions League il Tottenham.
Lo ha fatto, nel corso del cammino che lo ha portato a conquistare il trofeo più ambito, con la forza del suo calcio, delle sue idee e con l’ottimismo di una consapevolezza, quella di aver forgiato il Liverpool a sua immagine, attraverso un calcio intenso e sfrontato e un’identificazione con il proprio pubblico che ha davvero pochi eguali in Europa. E così, dopo essersi messo per due volte al collo la medaglia sbagliata della Champions, quella del finalista sconfitto (con gli stessi Reds un anno fa contro il Real Madrid e, nel 2013, alla guida del Borussia Dortmund contro il Bayern), questa volta è arrivato il momento della nemesi e dell’apoteosi, a giudicare dal tributo dedicatogli dai tifosi dei Reds.
Eppure, fra tutte, quella di ieri sera è stata la partita meno “alla Klopp” di tutta la stagione. Questo perché non c’è stato nemmeno il tempo di entrare in partita ed ecco subito l’episodio chiave quando, in area Spurs, Sissoko allarga il braccio per indicare la copertura a un compagno e Mané, astutamente, gli fa carambolare sulla spalla una sfera solo apparentemente innocua. Invece è letale: sono passati appena 25 secondi e l’arbitro Skomina assegna il calcio di rigore.
Decisione forse discutibile ma neppure troppo discussa con il Var; il penalty di Salah è centrale ma è una sentenza e la sentenza è di condanna. E dire che, con ancora tutta la gara da giocare, la possibilità di assistere a una sfida avvincente ci sarebbe anche, ma la partita si scopre d’un tratto stanca, incanalata verso un esito ineluttabile, con un Tottenham raggelato che produce poco o nulla – con Kane in campo sì, ma tutt’altro che recuperato dal punto di vista atletico – e un Liverpool a gestire, con Mané a tenere impegnata quanto basta la difesa di Pochettino e subire poco o nulla, salvo un paio di occasioni vere nell’ultimo quarto d’ora, dopo l’ingresso di Lucas Moura. Ma non è bastato e, nella Champions delle rimonte epiche, il ribaltone questa volta non c’è stato e anzi, a una manciata di secondi dal novantesimo, ecco il colpo da biliardo di Origi a chiudere i conti.
Restano speranze frustrate dunque quelle del Tottenham, alla sua prima finale di Champions, e dei suoi tifosi, che hanno a lungo covato il sogno di poter conquistare una coppa europea trentacinque anni dopo l’ultima, la Uefa del 1984. Non è stata sufficiente l’energia universale – la definizione mistica è dello stesso Pochettino – che aveva portato la squadra londinese a un passo dal sogno al termine di un cammino comunque memorabile, dalla qualificazione agli ottavi per interposta squadra (il passaggio avvenne grazie al suicidio dell’Inter contro il Psv Eindhoven) all’eliminazione del City con il decisivo gol di Llorente nel finale, sino alla più intensa delle semifinali, quella della leggendaria tripletta di Moura ad Amsterdam. Ma ieri è stata la notte di Jurgen Klopp, e forse era scritto che dovesse andare così.