domenica 5 febbraio 2017
Un libro di Silvia Freiles riapre il dossier sul poeta “radicale” di “L’osso, l’anima”. Sostenuto da Baldacci e Raboni, solo dopo la morte è stato davvero capito
Il poeta Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, 1922 – Milano, 1979)

Il poeta Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, 1922 – Milano, 1979)

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È il 1964, quando arriva in libreria L’osso, l’anima di Bartolo Cattafi. Sentite qua: «Avanti, sputa l’osso:/pulito, lucente, levigato,/senza frange di polpa,/l’immagine del vero,/ammettendo che in questo/unico osso avulso dal contesto/allignino chiariti, concentrati,/ quesiti fin troppo capitali./ Credo che tu non possa/farcela; saresti/cenere nella fossa,/ anima da qualche parte». Un’idea della verità e le questioni capitali e poi un sostantivo, anima, ormai fuori corso nella poesia del Novecento. Si potrebbe dire che questo notevole libro di versi sia una delle tante prove del suo mancato appuntamento con la propria epoca, della sua intempestività. Ecco: siamo di fronte a un poeta in anticipo sui tempi o fuori tempo massimo? Luigi Baldacci – che ne fu estimatore, secondo, forse, soltanto a Giovanni Raboni, il lettore più ostinato e motivato che il poeta abbia avuto –, già nel 1999, poteva osservare che sarebbe stato il più tempestivo Giorgio Caproni a raccogliere quel consenso di pubblico e di critica che, su tematiche analoghe, era completamente mancato a Cattafi; quel Caproni che, appunto, «arriva al tempo giusto, nel pieno cioè di un generale e irreversibile collasso ideologico ».

Ricorderò che solo un anno prima dell’uscita di L’osso, l’anima i neoavanguardisti avevano dato l’assalto alla cittadella della letteratura, risolvendo qualsiasi idea di poesia nella storia delle istituzioni linguistiche, che non poteva certo lasciare diritto di parola a uno come Cattafi il quale, invece, era interessato soltanto al noumeno e alla cosa in sé, convinto che la storia dei suoi versi coincidesse esattamente con la sua storia umana. Così a Spagnoletti, sempre in quel fatidico 1964: «Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelletto, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi».

Di certo Edoardo Sanguineti (1969), Franco Fortini (1977) e Pier Vincenzo Mengaldo (1978), in antologie che avrebbero dettato il canone del Novecento, neanche lo inclusero, seppure quest’ultimo si sia poi profondamente ricreduto. Il saldo di Cattafi con la cultura italiana, insomma, resta ancora tutto a credito. Non dico che non abbia avuto qualche riconoscimento importante già in vita. Ho citato, tra i suoi promotori, Baldacci e Raboni, cui dovrei almeno aggiungere, oltre Caproni, almeno Carlo Bo, Silvio Ramat, e, tra i più giovani, Raffaele Manica. Né gli è mancato qualche risarcimento postumo: nel 2003, per dire, appariva un’eccellente monografia del giovane critico e poeta, tra i migliori della sua generazione, Paolo Maccari, e cioè Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, ove si dà conto con intelligenza anche delle ragioni più estrinseche di quella sfortuna critica, come il deciso rifiuto del poeta a muoversi secondo la logica dell’industria culturale, il suo disinteresse per «ogni attività culturale parallela», che non fosse la poesia, non concedendosi, nei rapporti coi colleghi, il minimo favore «di scambio».

Non vorrei dimenticare poi, del 2007, le investigazioni filologiche di Stefano Prandi, raccolte in Da un intervallo nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi. Arriva ora, a riaprire il dossier Cattafi, una giovane studiosa, Silvia Freiles, che pubblica per l’editrice Aracne un volume intitolato La “parola illimitata” di Bartolo Cattafi. Ha ragione Freiles: dall’inizio alla fine, a prescindere dalle cesure e dalle due o tre fasi che si potrebbero attribuire al suo percorso poetico, da Le mosche del meriggio (1958) alla postuma Chiromanzia d’inverno (1983) insomma, quella di Cattafi è «una parola che non basta a se stessa e che non si esaurisce nello spazio del testo», ma, aperta al mare dell’esistenza, e pronta a contaminarsi con i territori più diversi e contigui alla scrittura (dalla fotografia, alla pittura, al disegno), tende a costituirsi come “parola illimitata”, per usare un’espressione che fu dello stesso poeta. Su queste basi Freiles indaga cronologicamente, ma anche per nuclei tematici e concettuali, tutta l’opera del poeta, rovesciando alcuni luoghi comuni, a cominciare da quello che lo vorrebbe refrattario a ogni riflessione teoretica e metapoetica.

Notevoli, aggiungo per inciso, le pagine in cui la studiosa si concentra sugli imprestiti danteschi, sul rapporto con Pascal e su quello con le avanguardie pittoriche, anche dell’informale. Se però, al di là di ogni complessa risultanza genetica e filologica testuale, ci si rivolge a quei versi come lettori interessati a un crittogramma del proprio destino, (oroscopo o vaticinio che sia), magari da spendere in vista di quel corpo a corpo con la morte che è poi, come aveva visto precocemente Raboni, la grande questione di Cattafi, allora la formula più giusta resta ancora quella espressa limpidamente da Paolo Maccari: «Il Novecento italiano non conosce una poesia della negazione più radicale e potente della sua». Più radicale di Montale: il quale ha voluto contrassegnare la sua percezione del negativo con “numinose” e “salvifiche” figure femminili. Più radicale del metafisico e nichilista Caproni: arrivato, come s’è detto, dopo seppure al momento giusto, ma lontano dalla perentorietà agghiacciante, programmaticamente sgradevole, di certi enunciati cattafiani. Lo scrive, Cattafi, in Ribollono le acque: «dissimili ed avversi/ gatti cani ed accalappiacani/ col collo chiuso in uno stesso collare». Carnefici e vittime, insomma, si muovono tra le macerie di qualsiasi progressiva filosofia della storia, come topi finiti nella stessa trappola. Alle spalle c’è Lucrezio, Pascal e Leopardi. Davanti, in una terra desolata che conosce solo frammentazione dell’io, ma dentro un modo che – penso a Le mosche del meriggio – conobbe persino una stagione di colori e idillio – c’è ora la sola ed estrema possibilità di rigiuocare la carta di Dio, come si legge in La mano dell’informe: «E Dio ci scampi/quando la pasta si ferma negli stampi».

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